Nel mio nome di Nicolò Bassetti

La transizione di genere in Nel mio nome di Nicolò Bassetti

Ai contorni netti nello specchio
preferivo un telescopio fuori fuoco
Nella nebbia cosmica di Andromeda
cercavo scampo dalla retta linea
Quindi mi sognavo insieme a Yuri e Valentina
camminavo nello spazio
Dentro lo scafandro sono soli
sono sola sono solo astronauta

Nunca Maas, Astronauta

 

Nel mio nome di Nicolò BassettiBologna, oggi. Leo, Raffi, Andrea, Nic sono quattro amici di età post universitaria, accomunati dall’essere nati con un sesso anatomico femminile che dall’infanzia non corrisponde alla loro identità di genere. Il disagio psicologico derivante, detto disforia di genere, li ha naturalmente portati ad affrontare la transizione F to M (female to male, da donna a uomo). Il film li incontra dopo che hanno già fatto esperienza dell’incomprensione quando non dell’ostilità degli altri e delle difficoltà di presentarsi al mondo e vivere un’esistenza piena. Con il nome e il corpo che hanno a lungo desiderato e conquistato. Laureato in filologia e impiegato da McDonald’s, Leo vorrebbe raccontare le loro storie in un podcast omonimo (a cura di Leonardo Arpino, Federica Manzitti e Bertrand Chaumeton, effettivamente realizzato e disponibile sulle principali piattaforme) e i tre amici approvano l’idea. “Restituire umanità alla persone, fosse anche attraverso la possibilità di raccontare la tua versione” è l’obiettivo. I loro ricordi ed esperienze arrivano a chi guarda direttamente dalle loro voci, isolate nelle tracce che Leo seleziona e commenta, in un’alternanza di situazioni molto intime e rare ma anche semplici e quotidiane: dai colloqui con i medici (fuori campo) e i ricoveri ospedalieri per la mastectomia totale alla preparazione della pasta fatta in casa o a un’escursione di gruppo nel verde e sotto l’acqua di una cascata. La voce di Leo fa anche da guida del film, senza rinunciare a raccontare la sua relazione con la fidanzata Luisa e le prove da bassista con la band Nunca Maas, che regala al film la canzone Astronauta, sorta di continuum sonoro e di senso del film. 

 

 

 

Raffi è meccanico in una ciclofficina. Innamorato delle biciclette, ha anche la passione dello swing, che condivide con l’amico Dario. È gay, vive una relazione a distanza, ma prima della transizione, come ragazza era percepita come lesbica. Appena può si mette a disegnare fumetti. Andrea non si separa mai dalla sua Valentine, la macchina da scrivere portatile su cui compone poesie e che gli fa da tramite con il mondo. Legge molto, è silenzioso e molto attratto dai cambiamenti di look, gli piace trasformarsi e ha sempre avuto una chiara percezione di sé. Nic, il più grande del gruppo, è già unito civilmente con Chiara, che lavora in una azienda agricola e b&b fuori da Bologna. È l’ultimo in ordine di tempo ad affrontare la transizione, la felicità che deriva da questa decisione gli si legge dalla luce negli occhi. Gli piace esplorare nuovi luoghi, anche insieme agli amici. L’origine di Nel mio nome, presentato a Berlino 2022 in Panorama, viene dall’interesse per il tema del regista Nicolò Bassetti, padre di un ragazzo transgender F to M. Già autore dell’idea costitutiva di Sacro Gra di Gianfranco Rosi e del documentario Magnifiche sorti, quadri da una esposizione universale, Bassetti qui trova l’affidamento del gruppo, grazie al suo status di genitore coinvolto, l’accoglienza di un contesto sociale e amministrativo attivo nelle politiche antidiscriminatorie e di genere (Bologna e l’Emilia Romagna) e al tempo stesso cerca e trova una misura e una continuità stilistica: suono in presa diretta, inquadrature per lo più fisse, azione interna all’inquadratura più che montaggio. In cerca di un’immersione profonda, non morbosa ma empatica e al tempo stesso più oggettiva e naturale possibile. Di un punto di vista “interno” che sia anche “esterno”, chiaro, il meno artefatto possibile. Più che una “normalizzazione” (termine scarico di senso) un avvicinamento all’esperienza della transizione, un’indagine antropologica, un contributo quasi didattico-scientifico alla conversazione, spesso approssimativa, certamente poco informata, nel peggiore dei casi violenta e discriminatoria. Perché “manca una narrazione, la gente ha bisogno di capire, di conoscere”.  

 

 

 

Ambientato negli spazi domestici o di lavoro dei quattro, e talvolta anche in luoghi che garantiscono loro sicurezza (come in un club che organizza “Mister F to M quarta edizione”), è una miniera di informazioni sulla quotidianità dei protagonisti: la percezione che di loro avevano gli altri prima della transizione, lo sforzo di negare per anni una grande parte di sé, la presenza della burocrazia (il magistrato) che autorizza il cambio di sesso, le reazioni scomposte delle famiglie (“è assurdo che sono le persone che abbiamo più vicine e che ci amano di più ad essere dei guardiani della norma”, dice Leo) e allo stesso tempo il tentativo di capire il loro giustificabile spaesamento. E ovviamente la macchina da presa lavora anche, con molto rispetto e discrezione, sul corpo: il confronto tra i diversi tipi di cicatrici, l’esaltazione per i peli, la barba, il cambiamento progressivo delle voci, del colore dei capelli di Andrea, il tatuaggio e l’orecchino di Nic. Le inevitabili curiosità genitali sono azzerate da dichiarazioni chiare, non (più) equivocabili: “la cosa più importante non è chi sei ma chi scopi. Mentre per noi è più importante chi siamo. È più importante vivere che sopravvivere”. Prodotto da Nuovi Paesaggi Urbani di Nicolò Bassetti e Gaia Morrione, che ha coinvolto nella produzione del film l’attore trans Elliott Page, e da Lucia Nicolai e Marcello Paolillo per Art of Panic, col sostegno di Regione Emilia Romagna, Nel mio nome è un importante contributo alla comprensione delle psicologie delle persone trans, che costituiscono l’1% della popolazione mondiale – circa 80 milioni di individui. Nel perseguire questo obiettivo, grazie ai suoi molto disponibili protagonisti, il film torna con puntualità, anche tramite archivi, alle memorie e alle tracce impresse durante infanzia e adolescenza. Indica la radice di tutto nella domanda ingenua, sconcertante eppure legittima di un bambino: “ma tu sei un maschio o una femmina?”, come se, come rileva ancora Leo, quella domanda non fosse già disumanizzante, “perché contempla o una cosa o un’altra, senza altre possibilità”. Alla fine, la differenza è tutta qui (nell’occhio di chi guarda): la possibilità di concepire – di vedere – un altrove. 

 

 

 

 

Nel nostro ordinamento giuridico non c’è spazio per un terzo genere
dato dalla presenza di caratteri primari e secondari femminili.
Neppure dilatando al massimo la nozione di persona umana
(da una sentenza del Tribunale di Milano, 2017)