Più che mai palese la citazione di Ocean Eleven, non solo in certi dettagli, ma nella struttura stessa. La truffa dei Logan è il lato indipendente di quella stessa medaglia, che Steven Soderbergh ci ha abituati a conoscere nel suo alternare produzioni milionarie a film quasi indie. La truffa dei Logan è l’esempio leggero e intelligente di questa seconda linea, che per il regista di Sesso, bugie e videotape ha voluto dire anche tornare a fare cinema, nonostante avesse dichiarato l’intenzione di non tollerare più lo schematismo e l’invadenza di Hollywood e facendosi produrre dalle reti televisive film o vere e proprie serie. Non si pensi, però, che sia tornato sui propri passi. Perché per La truffa dei Logan non è stata coinvolta nessuna major, anzi, Soderbergh, dopo essersi aggiudicato un cast di primo livello (Channing Tatum, Adam Driver, Daniel Craig, Katie Holmes e Hilary Swank) è riuscito a finanziarsi autonomamente e a distribuire il suo film negli Stati Uniti attraverso la sua stessa società. Un piano perfetto, proprio come quello elaborato dagli sfortunati fratelli Jimmy e Clyde Logan (Lucky Logan era il titolo originale), il primo ex promessa del football, rimasto zoppo in seguito ad un incidente sul campo, il secondo tornato dalla guerra in Iraq senza una mano. A vederli sembrano innocui e disperati, impossibilitati a tenere le redini della propria vita. Ma quando Jimmy perde il lavoro qualcosa cambia e la voglia di una rivincita sociale ed economica prende il sopravvento. Nasce così un’avventua totalmente autoreferenziale, nel senso del rispecchiamento tra la vicenda di questo film e il desiderio di fare cinema seguendo regole differenti da quelle imposte dall’industria cinematografica.
Allora, più che alla serie su Danny Ocean si pensa all’America di Trump (siamo nello stesso West Virginia dove si giocò una partita importante della campagna elettorale), povera, rurale e divisa tra l’ambizione consumista e il bisogno di strategie di sopravvivenza. Non è un caso che, in questo meccanismo perfetto, i protagonisti decidano di mettere a segno una rapinta al Charlotte Motor Speedway, un circuito automobilistico che ospita la gara di auto sponsorizzata dalla Coca Cola. Come dire il sistema in tutta la sua esuberanza. “È come rapinare l’America” si dice ad un certo punto, perché le banconote che finiscono nei sacchi della spazzatura dei nostri ladri arrivano direttamente dai chioschi dove gli spettatori accaldati consumano hamburger e bibite. In mezzo c’è un sistema di tubi che collega la superficie al sottosuolo, il mondo dell’apparenza e le gallerie scavate dai minatori e rimasti senza lavoro. Tutto torna in questo film astuto e divertente, perfettamente calibrato nella raffigurazione dei personaggi, che poi rappresentano la spina dorsale di una riflessione sul cinema che, come si diceva, Soderbergh conduce su un doppio binario. Imprevisto dopo imprevisto, un colpo di scena dopo l’altro, si smonta il meccanismo patinato di Ocean, o meglio, si sveste dei panni fashion e si ripresenta con gli abiti semplici di chi non ha nulla da perdere e cerca una strada alternativa, facendosi beffe del conformismo e ascoltando musica country. Due mosaici che si compongono sotto i nostri occhi, il film e la rapina, e ci lasciano sempre più convinti che l’ironia di una sottile e testarda contestazione sia l’ingrediente che Soderbergh sa usare al meglio.