Su MUBI La vita in transito di Ritorno a Seoul di Davy Chou

Sospeso nel tempo interiore della protagonista – una giovane donna di origine sudcoreana ma cresciuta in Francia fin da piccola, adottata da una famiglia francese, ed estranea al suo Paese natale, lingua compresa, almeno fino a quando, per un incidente di percorso o per reale volontà (il dubbio permane volutamente), non rientra in Corea del Sud, ovvero all’inizio del film -, Ritorno a Seoul è il terzo lungometraggio del regista cambogiano-francese Davy Chou. Un’opera che, fin da subito, dichiara la sua vicinanza con i personaggi, la sensualità nel filmarli, con o senza camera a mano, nel far respirare i loro stati d’animo, nel coglierne emozioni, felicità, dolori, ansie, aspettative. Tutto ruota attorno a Freddie, diminutivo di Frédérique, nome datole dai genitori adottivi (il suo nome coreano, Yeon-hee, lo scoprirà solo in una tappa del suo soggiorno a Seoul e in altri luoghi). Si immagina sia arrivata nella capitale sudcoreana da poco, nelle prime inquadrature è alla reception di un hotel, subito in confidenza con la giovane dietro al banco che diventerà sua amica e l’aiuterà non solo con la lingua ma anche nella ricerca dei suoi genitori biologici. Siamo così immediatamente immersi nella prospettiva di Freddie/Yeon-hee e in uno stato temporale altrettanto sospeso, proprio mentre le didascalie che punteggiano la narrazione sembrerebbero portare nella direzione opposta, quella di uno svolgersi cronologico dei fatti. “Due anni dopo”. “Cinque anni dopo”. Ma anche, ad avviare l’epilogo, “Un anno dopo” come in un ri-inizio (corrispondente alla “nuova vita”, o a una ulteriore sua sospensione) cominciata da Freddie/Yeon-hee in un posto anonimo, né coreano né francese, da lei raggiunto zaino in spalla, forse in vacanza, ancora in un hotel a chiedere una stanza per una notte.

 

 

Nel frattempo gli anni sono passati, Freddie/Yeon-hee ha incontrato prima il padre e poi la madre, ha vissuto esperienze sessuali e sentimentali fugaci o più lunghe, è diventata prima consulente di una società francese occupandosi dei clienti coreani e poi esperta nella vendita di missili per una ditta di armamenti, ha avuto un incidente in moto mentre si trovava in Thailandia con il fidanzato, ha cambiato alimentazione non mangiando più carne e non bevendo più (“Non per una questione ambientale, ma perché sto meglio così”, dice) e ha modificato varie volte il suo look. Un fatto si sussegue al precedente, eppure l’impressione è di essere avvolti in una “bolla” grazie alla struttura ellittica, “sognata”, incantata, adottata da Chou, grazie al suo sguardo fluido che predilige un rapporto intimo con il tempo. Nel film Freddie/Yeon-hee è sempre in Corea, si intuisce che nel corso degli anni sia andata e tornata diverse volte. Ma è come se fosse rimasta sempre lì e, al tempo stesso, profondamente legata alla Francia.

 

 

Un essere “in transito”, e non solo tra il Paese adottivo e quello d’origine. Lo schermo nero la “inghiotte” mentre un periodo si chiude e un altro si apre. Con il suo carattere dolce, tosto, impulsivo, sfida le convenzioni (al ristorante, in una delle prime scene, non rispetta il galateo coreano e poi coinvolge tutti i clienti in un’unica tavolata), si lancia in balli sfrenati in un bar o alla sua festa di compleanno. È il lato “estroverso” di “una persona molto triste”, le dice Tena, l’amica dell’hotel, sua traduttrice e complice, che Freddie/Yeon-hee a un certo punto vorrebbe baciare, ma lei si sottrae. È anche un grande film di primi piani, Ritorno a Seoul. Sostenuti da un cast di prim’ordine, a partire da Park Ji-min, nel ruolo di Freddie/Yeon-hee, sublime al suo esordio, mentre il padre è interpretato da un nome di rilievo del cinema e della televisione coreani, Oh Kwang-rok, qui nel tratteggiare un personaggio in cerca di un modo, non facile, di relazionarsi con la figlia dopo una così lunga assenza.