L’acqua l’insegna la sete di Valerio Jalongo e i tumuli della memoria

«Io credo a quelle parole solo se vi colgo la lieve eco di una sofferenza.

Perché se anche possiamo guarire dalla somaraggine,

le ferite che essa ci ha inflitto non rimarginano mai del tutto» (D. Pennac)

 

 

Abitare il tempo. Muoversi seguendo la direzione dei ricordi, il riflesso dei desideri, lo spettro delle illusioni. E poi fare i conti con le proprie follie, il flusso delle fantasie, il fantasma del futuro. Ritornare nei luoghi. Riascoltare la propria voce e il proprio suono. Rientrare in se stessi, dalla parola che si è fatta segno, dall’immagine che si è fatta memoria. Rivedersi. Riscoprirsi. Ritrovarsi. È tanto il materiale emotivo presente nel nuovo film di Valerio Jalongo L’acqua, l’insegna la sete, titolo tratto dai versi di questa poesia di Emilie Dickinson:

L’acqua, la insegna la sete.
La terra, gli oceani trascorsi.
Lo slancio, l’angoscia,
La pace, la raccontano le battaglie,
L’amore, i tumuli della memoria,
Gli uccelli, la neve.

Giusto sia la dimensione poetica a offrirsi al titolo perché misura, confine, azione intorno alla quale ruota il discorso. Non tanto perché venga recitata dal prof. Lopez, uno dei protagonisti del film, quanto perché assurga a riferimento e nutrimento. La poesia, qui, orienta l’animo, ispira il sentimento, penetra nell’interiorità e soffia come opportunità di riscatto. Si comprende così la scelta di Valerio Jalongo di tornare a raccontare il mondo della scuola, un po’ come già aveva fatto in La scuola è finita, questa volta seguendo un taglio documentaristico. Per Jalongo è viscerale l’interesse nei confronti della scuola, come già si intuiva in un film meno esplicitamente dedicato come Di me cosa ne sai?, teso a raccontare l’evoluzione dell’esercizio cinematografico in Italia ma pure attento a coinvolgere in un processo di consapevolezza collettiva e di trasformazione culturale i giovani studenti di alcune scuole di Roma; è un interesse nato dalla sua pregressa esperienza di docente nella scuola superiore ma figlio di una particolare disposizione e cura nei confronti del reale: attraverso la messa in scena della scuola è come se Jalongo si facesse interprete vivace e sincero di un mondo attorcigliato su se stesso e sulle proprie contraddizioni, fatto di metodi polverosi prima ancora che di strutture inadeguate, continuamente in crisi e lacerato da ferite sempre meno suturabili, disconnesso e in perenne mutamento (è questo un film che s’interroga sulla dispersione scolastica, quindi sì, è un film sull’Italia, la sua cultura, le sue politiche). Senza alcuna pretesa e privo di toni accusatori o ricattatori, il film di Jalongo s’interroga sul senso dell’esperienza scolastica, stupenda e terribile, feroce e commovente, e guarda alla scuola come a quel luogo speciale in cui infinite storie intersecano la condizione di studente, per natura duplice e sospesa tra poli opposti e contrastanti. Tra un’imposizione e una disposizione, tra un ruolo spettatoriale e uno attoriale, lo studente è un elemento “teso” (attento, “tende a”, si dirige verso un obiettivo ma pure è in tensione quando vive la sua condizione in modo conflittuale o problematica) e il continuo confronto con se stesso e con gli altri si traduce in altrettante tensioni caratterizzanti.

 

 

Questa condizione di inadeguatezza propria del sistema scolastico, però, non sembra scalfire l’animo di Yari, Jessica, Lorenzo, Gianluca, Corinna, Alessio, oggi adulti che nel 2004 frequentavano la 1ª E dell’Istituto Rossellini per la cinematografia e la televisione di Roma. Quei ragazzi e quelle ragazze, cosa sono diventati, quindici anni dopo? Cosa è rimasto loro impresso delle lezioni del prof. Lopez? Questa frattura temporale è osservata senza la pretesa di ottenere una risposta universale. Ciascuna di queste persone pare abbia scelto di spendere la propria vita per gli altri prendendosene cura, in un modo o nell’altro, scegliendo di vivere facendo ciò che si ama nonostante le fatiche e i propri limiti. Non tutti ce l’hanno fatta. Qualcuno ha preso strade sorprendentemente inaspettate, però c’è. O, perlomeno, continua a cercare quella luce che, durante un frammento della propria esistenza durato poco meno di due anni, illuminava i suoi passi.È guardando questo film che tornano alla memoria alcune parole di Daniel Pennac in Diario di scuola: “Insomma, una figata, come dicono i beati di oggi! Amavo ed ero amato! Come poteva, tutto quell’ardore impaziente, suscitare tanta calma e tanta sicurezza? Di colpo qualcuno aveva fiducia in me! E io avevo fiducia in me stesso!”.
E alla fine cosa rimane? Forse, nemmeno le scritte sui muri. Forse, tutto quello che vediamo.