L’Afghanistan fra tradizione e favole di Wolf and Sheep

wolsheepVivono in un villaggio sperduto tra immense montagne e colline in una remota regione dell’Afghanistan. Vivono dei prodotti minimi che danno loro la terra e gli animali. Vivono di baratti, qualche uova in cambio di qualche oggetto portato fin lassù da un venditore ambulante. Il denaro non esiste. Vivono una vita spartana fatta di piccole grandi cose, ancorati alle tradizioni, anche le più violente, e alle leggende, in un tempo che sembra essersi fermato. O, semplicemente, perché esistono altri tempi, altri modi di esistere al di là dei nostri parametri. Sono uomini e donne (che non indossano il burqa, ma semplici foulard, come se lì certe regole repressive e maschiliste non fossero arrivate), bambine e bambini che rappresentano famiglie spesso rivali fra loro per questioni di greggi o di torti subiti e da ricambiare con metodi arcaici. La racconta, questa comunità, una regista afghana alla sua opera prima. Lei si chiama Shahrbanoo Sadat e ha 26 anni. Il film èWolf and Sheep (presentato alla Quinzaine des réalisateurs).

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Le pecore coprono gran parte del nutrimento di quelle persone. I lupi sono quelli che, non di rado, attaccano le greggi, ma che, soprattutto, abitano le leggende, i racconti che tutti vivono come veri. Il lupo del Kashmir e la fata verde sono esseri reali che nelle notti si spingono fino alle case e turbano, modificano, talvolta in forma radicale, l’esistenza di quella gente. Così, in un testo dove le scene sono intrise di un realismo quasi documentario, mentre le parole rimandano a mondi fantastici e pericolosi, venati d’orrore e di corpi mutati e mutilati dai personaggi delle favole popolari tramandate, trovano spazio, con cromatismi diversi ma penetrando fluidamente nel quotidiano, scene che visualizzano la fata nuda, con il volto e le spalle coperti da lunghi capelli simili a una pelle d’animale che avanza tra le valli, e il lupo che cammina su due gambe appoggiandosi a un bastone). I due livelli interagiscono. Tra un funerale, bambine e bambini che giocano nell’acqua, bambini che giocano a tirare sassi con un laccio (talvolta rischiando gravi incidenti, come il ragazzino che perde un occhio), bambine che giocano a intrecciare corde con le mani e le dita dei piedi. E con Sediqa, l’undicenne ritenuta dalle altre coetanee maledetta per via della nonna strega,th5 che intreccia un’amicizia proibita con Qodrat, il quale le insegna a tirare, cercando di imparare poi lei, da sola, a destreggiarsi con quel gioco da maschi. Shahrbanoo Sadat osserva con leggerezza, mai superficiale, quelle attività quotidiane che si ripetono. Come si ripetono i percorsi lungo le montagne e le valli di persone e animali, in una sorta di western dove tutto sembra immobile. Eppure, improvviso, sconcertante, il fuori campo di una guerra in atto giunge fin lassù. Qualcuno avverte che uomini armati si stanno avvicinando rapidamente. Bisogna scappare. Prendere quel poco che si può e partire. Abbandonare tutto per un esodo dalla destinazione ignota, senza neppure sapere dove si passerà la notte seguente. Sadat cambia ritmo, il suo sguardo da riflessivo ora si fa ansioso, aderendo alle reazioni degli abitanti. E, dopo avere seguito in piano sequenza l’inizio di quella partenza, lo tronca. Non può esserci un finale. Sui titoli di coda su nero, continua il sonoro delle voci che si incamminano verso i monti. E la memoria va al film cileno del 2013 Las niñas Quispe di Sebastián Sepúlveda dove in uno sperduto luogo di montagna tre sorelle cercarono di sopravvivere alla dittatura. Ma infine l’eco della repressione arrivò anche in quell’altro lassù. Così lontano, così vicino a quello filmato con discrezione e senso di cinema da Sadat.