Da qualche parte in Israele. Ma potrebbe essere un qualsiasi posto sulla Terra. Pochi scorci di strade e di interni (una panetteria, abitazioni che grondano povertà). Due personaggi dei quali si sa poco (l’adolescente Muhammad) o nulla (l’arrotino Yuval), che non si parlano per tutto il film, salvo una breve, marginale battuta o quando Muhammad chiama ripetutamente l’uomo, una notte in strada, sotto il palazzo dove vive. Eppure, due personaggi dei quali si sa tutto, dai loro comportamenti che generano un’attrazione sensuale e violenta, la cui base precede l’inizio del film, proviene da cose accadute in un fuori campo, fatti che, da sotto la pelle (da sotto la pelle del film), affioreranno alla superficie, ma senza mai venire davvero raccontati, decifrati. C’è un mistero, una tensione, un dolore fisico, un’ossessione non gestibile, se non a costo di un atto estremo, che si espande in ogni (si sarebbe detto fino a non tanto tempo fa) fotogramma di Lama Azavtani (Why Hast Thou Forsaken Me, ovvero Perché mi hai abbandonato, senza punto di domanda, con riferimento a una parte delle parole pronunciate da Cristo sulla croce), presentato in Orizzonti.
Capita ancora, ed è raro, di sorprendersi al cinema. Soprattutto se il film che ti scuote gli occhi e il cuore è un’opera prima e, dunque, non si sa nulla di chi l’abbia realizzata. L’inizio di un percorso. Che c’è da augurarsi porti lontano Hadar Morag, cineasta israeliana autrice di un capolavoro (a ribadire la fertilità del cinema d’Israele, qui con il testo più consapevole, per forma e narrazione libera, degli ultimi anni) che chiede allo spettatore una partecipazione, prima di ogni altra cosa, fisica, che mette alla prova i sensi, l’udito quanto l’occhio, senza mediazione. Appena dopo l’immagine d’esordio – dove una figura è filmata di spalle, avvolta da un indumento, con le braccia aperte a formare una croce, sospesa tra la terra e il cielo – Morag scaraventa, senza preavvisi (che non ci saranno mai), il suo sguardo, la sua macchina da presa (e chi guarda) in un luogo ristretto, subito non riconoscibile, dominato da un rumore assordante prodotto da una macchina, sulla quale il corpo di un ragazzo esile (Muhammad) si agita per tenerla ferma. Sembra un operaio alle prese con un trapano. Siamo invece nel retro di una panetteria ebraica. Il rumore e il lavoro sono insostenibili. La scena espansa. Morag ha trovato il modo perfetto per inchiodare il suo giovane personaggio (arabo, malvisto dalla sua comunità, chiamato collaborazionista perché lavora con gli ebrei e ha il padre in carcere, ma non si saprà per quale motivo, ogni situazione essendo, al più, solo accennata) e lo spettatore. Da quel rumore, da quei rumori, perché altri ne seguiranno, da quella claustrofobia che si insinua ovunque, frantumando la separazione fra interno e esterno, non si uscirà più. E non ne uscirà più Muhammad, claustrofobicamente, si potrebbe dire autisticamente, imprigionato in un non detto che lo sta divorando, sempre a zonzo con la sua piccola, sgangherata bicicletta in corse vertiginose oppure immobile, automa in attesa di ri-partire, davanti a uno specchio sporco dopo il lavoro o osservando l’apparire e scomparire di Yuval con la sua moto sulla quale ha posizionato l’attrezzatura per arrotare qualsiasi tipo di coltello. Lavoro che produce l’altro rumore assordante, soprattutto nella lunga scena in cui l’uomo insegna al ragazzo ad affilare i coltelli, tenendogli le mani.
I gesti dicono anche qui più delle parole. Le immagini ben più dei dialoghi. Come accade in due scene mute, fra le tante straordinarie costruite da una regista dall’immenso talento visivo. Chi è Yuval, giacca di pelle, capelli rasati? Dall’alto del suo palazzo osserva la città, o oltre essa. Figura in nero filmata dal basso, guardata da Muhammad. Demone? Angelo? Adescatore di minorenni (nel passato con Muhammad e nel presente con un bambino, come si intravede in un’inquadratura da lontano mentre lo sodomizza)? Figura paterna? Non si sa e non conta saperlo, l’immaginazione e il pensiero sono chiamati a interrogarsi in un film senza moralismi pervaso da una tensione erotico-sentimentale insopprimibile. E poi c’è quell’altra scena, anzi, gli istanti finali di una scena che vede Muhammad inseguire il bambino abusato da Yuval. A terra, dopo una lotta, i due si guardano e, sempre senza parole, gli occhi del bambino, fissando quelli di Muhammad, capiscono. Entrambi condividono un segreto impronunciabile. Che porterà l’adolescente, da tempo munito di un coltello che poi affila, e dopo una serie di incontri in esemplare sintonia con il resto del film, al tempo stesso misteriosi e rivelatori (quello con un uomo al quale consegna dei soldi, forse il padrone della panetteria, ma con cui si immagina, anche qui da un solo gesto, possa avere – avuto – una relazione; quello in carcere con il padre), alla scelta di espiare la sua colpa. Perché, come ricorda Hadar Morag ricordando a sua volta Simone Weil, “l’esperienza dell’atto violento e della malvagità consuma e distrugge vittima e aggressore”. Così, Muhammad decide di evirarsi. E lo fa in primo piano, con il membro in una mano, in mostra, e il coltello nell’altra. Pur se la situazione è del tutto diversa, come si fa a non pensare al finale de L’ultima donna di Marco Ferreri con Gérard Depardieu che compie lo stesso atto nella cucina dell’appartamento dove vive con Ornella Muti e il figlio piccolo? Primi piani, sangue, stordimento. E in Lama azavtani l’epilogo di quella scena esprime tutto il senso di quest’opera disturbante nel senso migliore del termine, e sempre più inscritta in una dimensione carnale, filosofica, metafisica. Yuval riappare, corpo senza gravità, si carica sulle spalle il ragazzo sanguinante, sale le scale e lo adagia, lo spoglia, lo accarezza e abbraccia. Il silenzio, qui e altrove, è assordante quanto i rumori esplosi in altre scene. Lama azavtani è un film assordante e silenzioso, ossessivo nella ripetizione, notturno e disperato. Lacerante e purificatore.