L’anima russa di Tarkovskij. Il film come Icona, come scultura del Tempo in Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera

Il documentario ci mostra un Tarkovskij radicalmente religioso e russo. La sua visione estetica è tutta dentro la tradizione “sofianica” di Vladimir Solovev, Pavel Florenskij e Sergej Bulgakov. Per loro, e per Tarkovskij insieme a loro, la trascendenza è sempre immanenza. Il padre biologico con la sua assenza consente l’agire, nel Figlio, nell’artista, di quell’altro Padre trascendente che vive solo e unicamente nel corpo della Madre, la natura, perché nel mondo nulla è profano e tutto è sacro. Non si tratta di una metafora, ma della vita vissuta, del bambino che non poteva nemmeno immaginarsi di staccarsi mai dalla madre, pur desiderando il padre. Una lettura cristologica della stessa posizione dell’artista nella società. Un artista che, per l’appunto, deve farsi martire e agire come l’Amleto, facendosi – secondo Tarkovskij che questa dramma avrebbe voluto portare anche su pellicola – «catalizzatore del suo tempo», di quel “tempo fuori dai suoi cardini” che proprio lui – secondo le parole dello stesso Shakespeare – si sente “chiamato dal padre a rimettere in sesto”. Natura, umano e divino sono uniti in un solo destino. E solo l’arte è in grado di svelarlo, a patto che rinunci al discorso e si faccia poesia, che riproduca – per dirla con le parole di un altro poeta, Jorge Luis Borges – quella “imminenza di una rivelazione, che non si produce”. Ogni opera d’arte è quindi la promessa di un destino, di un altrove che è già dinanzi ai nostri occhi. Questo tempo a venire vive, già compiuto, nella promessa, come lo stesso Wittgenstein delle “Ricerche filosofiche” ci ricorda: la promessa è opera compiuta in sé, è tale senza che sia dato sapere se si realizza o no. La sua dimensione del tempo è quella dell’eterno ritorno, del compiersi in se, del vivere di se stessa. Come l’opera d’arte, come la contemplazione della natura. Senza di questa la società deperisce e muore. La cultura stessa – dice Tarkovskij – è sublimazione della religione, e viceversa: «il ruolo dell’artista nella società contemporanea è enorme perché senza gli artisti non ci sarebbe la società, perché l’artista rappresenta la coscienza della società. Meno possibilità ha di esprimersi e di entrare in contatto con il pubblico più la società diventa priva di spiritualità».

 

 

La contrapposizione dello spirito russo all’occidente, fattosi mondo, è esplicita. Il mondo “usa il microscopio come un’arma”, dice il vecchio padre in Sacrificio, il suo rapporto con la natura è solo malvagio per povertà di spirito. «L’uomo si è attaccato al primo giocattolo disponibile, ha creduto in un’ascia di pietra, e non nell’influenza magica dello sguardo umano, del desiderio che avrebbe potuto prevenire il colpo sferzato da quell’ascia». E se l’ascia è la nostra tecnologia, lo sguardo è il cinema. Uno sguardo che deve posarsi sulla natura in modo differente, perché «noi siamo il risultato dell’evoluzione della natura. Un’arte che trascuri la natura è criminale perché solo in essa possiamo trovare la percezione della verità». Così, nella descrizione diacronica di questa polarità tra il male attuale e il bene che ci attende, l’Apocalisse di Giovanni è, secondo Tarkovskij, l’opera massima di poesia mai scritta da uomo e ispirata da Dio. In essa è già in atto la resurrezione dei corpi e il regno dei cieli, perché tali sono i doni della poesia, compiere il miracolo nella preghiera, nella promessa, nella commozione di uno sguardo sul mondo come atto di fede. Ma paradossalmente lo è anche nel suo senso negativo, diacronico, di una società che privandosi di questa necessità dell’arte, deprivata di spiritualità, violenta la natura e gli uomini. «Il nostro sviluppo è diseguale perché l’uomo si è difeso dal mondo. (…) Il dramma del futuro probabilmente non sarà la guerra ma una graduale distruzione della nicchia ecologica per l’esistenza umana. Anche senza guerra soffocheremo in quest’atmosfera. Perciò il problema dell’arte e della salvezza diventa sempre più importante. E’ importante fare in tempo».

 

 

Riascoltare oggi questo passaggio, con l’incombenza di un collasso climatico che mette a rischio la sopravvivenza della specie umana, è impressionante. La nostra casa brucia, e la Casa è un topos fondamentale nel cinema di Tarkovskij. Nel documentario possiamo vederlo come carpentiere mentre si costruisce la casa di Myasnoe, a trecento chilometri da Mosca, identica alla memoria di quella in cui era vissuto con la madre. Splendidamente rivisitata oggi per il documenario, questa casa bruciò davvero e nonostante che la moglie, Larisa, la ricostruì, Tarkovskij dovette andare via, rinunciando anche ad ambientarci le scene russe di Nostalghia. Un abbandono doloroso, ma non solo per affetto personale. L’abbandono della casa è l’abbandono di un macrocosmo speculare a essa, quello della nostra natura terrena. È il misfatto più grave, e al contempo l’illusione più stupida. Scienza e poesia sembrano concordi. Ce lo ricorda recentemente in un’intervista a “La Lettura #422” il Nobel per la Fisica Didier Queloz, colui che ideato il satellite messo in orbita per esplorare i pianeti simili alla Terra: «A livello biologico siamo fatti per vivere qui sulla Terra, siamo il prodotto di una evoluzione lunga tre miliardi di anni che ci ha resi compatibili con la vita su questo pianeta, ma non altrove. È più facile toccare il fondo oceanico e garantisco che arrivare sul fondo dell’Oceano è tutto fuorché uno scherzo». Sembra davvero di riecheggiare Solaris (t.o. Soljaris, 1972), il suo oceano, l’impossibilità del distacco. La casa terra. Quest’isola di depositi transgenerazionali che si fa preghiera essa stessa. Ogni casa diventerà miniatura dell’altra, come in Sacrificio quella in miniatura a immagine e somiglianza di quella paterna che l’ha visto concepire, essa è il cuore di quella natura da cui non può mai disgiungersi, quel paesaggio di prati e boschi che la circonda, e che resta così predominante nel cinema di Tarkovskij, un insieme che di nuovo in miniatura, come bambole russe una nell’altra, in Nostalghia, trova spazio come altare dentro le mura di una Chiesa, anch’essa aperta e libera sotto il cielo.

 

È la stessa casa russa invocata dal regista, nel commiato con cui Andrej Andreevič fa uscire di scena la voce del padre. In lei e nella sua spiritualità Tarkovskij depone tutta la sua speranza. Una dichiarazione, occorre ricordarla, fatta prima della caduta del Muro e forse solo agli albori della stagione avviata da Gorbaciov. Una dichiarazione ancora più forte perché fatta dal volontario esilio in Italia, sapendo che tornando nell’Unione Sovietica non avrebbe più lavorato. «Se le circostanze saranno favorevoli andremo a Costantinopoli» dice il padre al figlio nell’omonimo racconto che apre con questo titolo una raccolta di prose varie e lettere del nonno Arsenij (Libri Scheiwiller, Milano 1993). Il figlio non capisce che si tratta di un modo di dire, ma il modo di dire nasconde lo spirito russo del pensarsi come Terza Roma, continuatori dello spirito di Bisanzio. È questa la Casa, il deposito di segni di cui Tarkovskij si sente erede e interprete contemporaneo. Non a caso è Andrej Rublëv il film che lui rivendica come primo gesto autoriale, dopo l’esordio con L’Infanzia di Ivan (t.o. Ivanovo detstvo, 1962), di cui egli, in opposizione con il senso comune nella critica d’arte, tende a ridimensionare il valore. Le icone sono l’esempio storico più calzante di un’arte che si fa preghiera, dove l’autore scompare nell’opera, senza firmarla, si fa monaco esso stesso in preghiera per giorni prima di dipingerla. Il film è un trattato d’iconografia, composto per quadri, che segnano tappe nel percorso di purificazione spirituale dello stesso pittore, anche lui ridotto al silenzio, alla rinuncia, prima di sentirsi pronto. Non è il racconto di un grande pittore, è l’opera paradigmatica che traccia in anticipo tutta la summa estetica di Tarkovskij e che non a caso è il pittore citato in modo esplicito in Sacrificio, il suo ultimo film. Singolare che la sua vicenda biografica, come dichiara lo stesso figlio in un’intervista sul documentario, sia un eco di quella artistica e viceversa. Esiliato nel cuore di una città rinascimentale, massimo esponente del cinema d’autore, Tarkovskij incarna con la sua esperienza vissuta quello spirito russo che contrappone al Rinascimento la Iconodulia. Tornando a uno dei massimi esponenti russi del pensiero estetico contemporaneo, Florenskij vede proprio in Andrej Rublëv l’artista che contrappone alla prospettiva rinascimentale una prospettiva rovesciata (“La prospettiva rovesciata”, opera del 1919 edita solo nel 1967). La prima dimentica che lo sguardo reale dell’uomo è sempre mobile e chiude l’illusione prospettiva dentro una falsa, rigida geometria artificiale, imponendo un punto di vista meccanico su quello umano. In essa anche lo sguardo si è trasformato in un’arma, così dal microscopio citato in Sacrificio siamo tornati, a ritroso nel tempo, proprio alla camera oscura, ossia all’ottica, al fondamento della fotografia. Al contrario nell’Icona il punto focale non è sul fondo dell’opera bensì sullo spettatore, l’Icona ci guarda, è convessa, a essere al centro è l’uomo e nell’Icona la preghiera si fa miracolo, dona all’uomo uno spazio che è anche temporale, una unità trascendente dentro l’immanenza, come nel pensiero filosofico-religioso russo. Il punto di vista, secondo Florenskij, non è più univoco, è vivo e in movimento, come quello della percezione visiva oculare, ma potremmo aggiungere anche come quello del cinema, che grazie al tempo e al montaggio rompe l’unicità della prospettiva e mette riparo alla sua natura ottica-fotografica. Possiamo dire che anche i film di Tarkovsky non debbano essere guardati, ma siano essi a guardarci, a farci da specchio e a ridonarci lo sguardo. I rimandi di questo discorso all’Immagine-Tempo bergsoniana di Gilles Deleuze meriterebbero una trattazione a parte.

 

 

Come questo pensiero debba (ri)fare i conti con l’Occidente, quell’occidente che ha permeato il mondo di se, è la domanda chiave dell’esperienza artistica e umana di Tarkovskij di cui questo documentario, questo film eccellente, ci mostra tutto il percorso. Ce lo mostra con i debiti che Tarkovskij stesso lascia come tracce, per esempio proprio quel protagonista del Rinascimento che è Leonardo da Vinci, di cui più volte mostra nei suoi film disegni e schizzi. Quello stesso Leonardo che si distingue all’interno della sua stagione storica per un atteggiamento radicalmente diverso sulla natura, non asservita all’uomo come in tanto umanesimo del suo tempo. Chi se non l’autore della Gioconda, oggi ridotta a mero spettacolo della spettacolarizzazione, è icona di quella “conoscenza delle cose che conduce al pianto” invocata da Andrej Rublëv? Dopo aver visto il documentario abbiamo cercato la risposta a questa domanda sulla dialettica tra spirito russo e tempo presente. Il nostro pensiero è tornato alla lettera del poeta Puškin, padre della moderna identità letteraria russa, a Čaadaev, colui che era stato internato per ordine dello Zar a causa delle sue disperate Lettere Filosofiche (1836) dove la Russia appariva come uno spazio vuoto, privo di senso, sospeso tra oriente e occidente. Tarkovskij nel film Lo Specchio fa leggere questa lettera ad alta voce, su richiesta di una misteriosa presenza arcaica femminile, al suo alter ego bambino. La lettera è datata 19 ottobre 1836, e la trascriviamo per intero: «Non c’è dubbio che lo scisma delle chiese ci ha separati dall’Europa e che non abbiamo partecipato a nessuno dei grandi eventi che l’hanno scossa, ma noi avevamo la nostra propria missione. È la Russia, sono i suoi spazi sconfinati ad aver assorbito l’invasione mongola. I tartari non hanno osato superare le nostre frontiere occidentali. Si sono ritirati nelle loro steppe e la civiltà cristiana è stata salvata. A questo scopo, abbiamo dovuto condurre un’esistenza assolutamente particolare che, pur lasciandoci cristiani, ci ha tuttavia resi profondamente estranei al mondo cristiano. Per quanto riguarda la nostra insignificanza dal punto di vista storico, non posso decisamente essere d’accordo con voi. E non trovate qualcosa di importante nell’attuale situazione della Russia, qualcosa che colpirà gli storici futuri? Anche se sono sinceramente devoto al nostro sovrano, non posso proprio entusiasmarmi vedendo quello che mi circonda; come letterato ne sono irritato, come uomo afflitto da pregiudizi ne sono offeso, ma vi giuro sul mio onore che per nulla al mondo vorrei cambiare patria, o avere un’altra storia, diversa da quella dei nostri padri, esattamente come Dio ce l’ha data.» La sfida di Tarkovskij e di suo figlio nel rimettere in circolazione con questo film il suo pensiero è evidentemente quello di andare oltre questa Storia e al contempo mantenerne lo spirito, «uno spirito che non conosce frontiere». Le stesse che Andrej Gorčakov, il protagonista di Nostalghia, dice non dovrebbero esistere se si volesse una poesia universale. Resta però la libertà che appartiene alla persona, con o senza confini. «Si possono levare i diritti ma la libertà non si può sopprimere. Amleto dice “chiudetemi in un guscio di noce e mi sentirò Re di una spazio infinito”. Se vuoi essere libero sii libero. Invece in posti politicamente non liberi troviamo persone libere e nei paesi democratici troviamo tante persone non libere».