FilmmakerFest – Le mura di Bergamo di Stefano Savona: la guarigione è nella comunità

Si calcola che tra il 20 febbraio e il 31 marzo del 2020 nella sola provincia di Bergamo a causa della pandemia siano morte più di 6.000 persone.

La pandemia è un ricordo lontano, sgradito, imbarazzante. Costringe a rievocare il terrore e lo smarrimento di decine di giornate vuote, tutte uguali, angoscianti, scandite dalle sirene delle ambulanze. Così sono trascorse, almeno per i primi tre mesi, per chi era in Lombardia, epicentro della diffusione del virus. 

Dopo vari instant movies dall’approccio legittimamente cronachistico, sulle diverse reazioni delle comunità alla fulminea, ingovernabile diffusione del contagio (tra i tanti, Fuori era primavera, “un film collettivo di Gabriele Salvatores” o l’altrettanto polifonico La prima onda, Io resto di Michele Aiello), a tre anni dall’inizio di tutto si impone, per densità, sensibilità, cura formale, un’opera che ragiona sull’assenza di chi non c’è più – quelle più di 6.000 persone – e su come stanno, cosa provano e cos’hanno attraversato quelle che sono loro sopravvissute. 

 

 

Prodotto da ILBE (Iervolino & Lady Bacardi Entertainment) con Rai Cinema, distribuito da Fandango dopo l’anteprima alla Berlinale 2023, Le mura di Bergamo di Stefano Savona (Primavera in Kurdistan, Tahrir, Liberation Place, La strada dei Samouni) supera gran parte della produzione audiovisiva sulla pandemia e costituisce un punto di svolta. Perché porta un senso ulteriore, quello che le note stampa del film individuano nella parola guarigione: 

«Il corpo della città è un organismo devastato che prova a reagire. Medici, infermieri, pazienti, volontari, e anche chi non ha vissuto direttamente il dolore della malattia, tutti cercano un proprio ruolo nel processo di guarigione della città. Raccogliere e raccontarsi le storie di chi non c’è più diventa una maniera per rielaborare il lutto privato e collettivo e per ragionare sul bisogno di una nuova ritualità della morte».

Le mura di Bergamo sale a (ri)guardare la città dall’alto, per fare memoria in gruppo, raccogliendo le voci di chi è rimasto e ha vissuto quel tempo emergenziale, inaudito, irrazionale: una centralinista sopraffatta da domande senza risposta, paramedici che hanno dovuto confortare sconosciuti, prendere commiato da loro e fare, nel migliore dei casi, da tramite coi familiari; un medico infortunato che continua a visitare a domicilio, l’impresaria di un’agenzia di onoranze funebri a conduzione familiare, investita di richieste e di una funzione di cura imprevista e soverchiante; anziani che si ritrovano improvvisamente soli. Tutti uniti dal trauma, abituati per forza maggiore al rintocco delle campane a morto, eppure desiderosi di superare insieme il pericolo e lo choc attraversato. Il saluto negato, il peso di un evento funesto e della sua comunicazione, entrambi superiori alle umane possibilità. 

 

 

Il film inoltre trasforma una gran massa di home movies d’epoca, appartenenti a famiglie locali, nella materia quasi onirica con cui stemperare la durezza delle immagini attuali e affrontare una massa di perdite così ingente che sembra impossibile rappresentarla in termini cinematografici più precisi della già nota sequenza dei camion militari in colonna. Eppure, queste riprese in pellicola, in bianco e nero e a colori, di brevi villeggiature, feste, cerimonie, assumono una dimensione monumentale, come a sostituire quella prova fotografica che molti, quasi tutti, tra chi ha perso una persona cara, non sono riusciti a trattenere, a ottenere in ricordo. A volte quel gran numero di immagini dal passato sembra invece significare altro, simulare il ricordo, l’attaccamento alle memorie di ogni ricoverato nelle terapie intensive, da dentro il casco per la ventilazione, avrà immaginato, alle quali si sarà aggrappato con tutte le sue forze.  

 

 

Un cimitero in movimento insomma rivive in quei filmati, raccolti e montati da Sara Fgaier (responsabile del montaggio insieme a Davide Minotti e Francesca Sofia Allegra) in un’opera realmente collettiva, che senza enfasi alcuna, ma anzi nel rispetto del lutto, cerca sollievo e senso di comunità, grazie alla moltiplicazione e ricongiunzione fruttuosa dei punti di vista: arrivato a Bergamo all’inizio della pandemia, Stefano Savona ha girato insieme ai suoi studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo: Danny Biancardi, Sebastiano Caceffo, Alessandro Drudi, Silvia Miola, Virginia Nardelli, Benedetta Valabrega, Marta Violante. Ai quali non si può che essere grati.