L’estate di Cléo di Marie Amachoukeli-Barsacq: fragilità e potenza dei sentimenti

È tutta una questione di punto di vista. Il film di Marie Amachoukeli-Barsacq L’estate di Cléo inizia e si sviluppa enunciando fin da subito la linea che sottende tutto il racconto. Non solo cosa vediamo quando osserviamo il mondo, ma come lo vediamo. E infatti la piccola Cléo si sottopone ad una visita dall’oculista, accompagnata dalla sua tata Gloria (l’attrice non professionista Ilça Moreno Zego), e protetta dai suoi grandi occhiali non distoglie mai lo sguardo dalla donna (in questa scena come in tutto il film), che la conforta e la protegge. Storia di un amore speciale che le nostre convenzioni ci impediscono di dichiarare in tutta la sua forza. Un tabù, come lo definisce la stessa regista, che accetta la sfida di mostrarci il mondo come lo percepisce una bambina di sei anni, spensierata e triste al tempo stesso, capace di adattarsi in poco tempo, ma anche si scoppiare in un pianto disperato e liberatorio. Perché l’estate della piccola Cléo si presenta presto come una parentesi anomala, fatta di grandi e forti emozioni, lei che a soli sei anni ottiene dal padre di trascorrere ancora un po’ di tempo con l’adorata Gloria, che l’ha allevata dalla morte della madre. A Capo Verde la bambina tenta di ricreare lentamente il rapporto esclusivo instaurato con la donna in Francia, cercando continuamente le sue attenzioni, la sua voce, le sue carezze, andando oltre ogni ostacolo, non potendo sapere che Gloria, nel suo paese d’origine, è prima di tutto la madre dei suoi figli, una donna affrancata dal rapporto di sudditanza lavorativa, ma anche in grado di vivere interamente la sua vita.

 

 
Perché il primo e più grande cambiamento in questo viaggio sta proprio nel passaggio da una figura bidimensionale alla tridimensionalità della vita reale, come se nella in Francia, l’”immigrata” Gloria avesse diritto ad una identità ridotta alla sola sua funzione. E così a Capo Verde, Cléo scopre una caleidoscopica Gloria e con lei la prospettiva profonda della realtà, nonostante i primissimi piani e i ripetuti dettagli che ci lasciano vedere solo scampoli di paesaggio. Marie Amachoukeli realizza in questo modo un film “sensoriale”, ricchissimo e immerso nell’universo epico dell’infanzia. Si spiegano così gli intermezzi animati, racconti nel racconto, talvolta lievissimi flashback, talvolta premonizioni di un imminente futuro, talvolta, infine, pure suggestioni che ci consentono di interpretare il tono e le infinite sfumature. Racconto silenzioso, anzi, sussurrato e doloroso, intriso di malinconia e di nostalgia. Intenso e disarmante, che vibra su livelli diversi e sovrapposti: la storia di crescita di Cléo, quella divisa di Gloria, le vite “parziali” dei figli di lei, lasciati per andare a lavorare in Europa e quindi il post colonialismo, il disequilibrio tra nord e sud, il conflitto tra amore e denaro. Nulla si risolve alla fine e nessun tormento interiore verrà sanato. Solo una consapevolezza, forse, più chiara della fragilità e della potenza dei sentimenti.