L’impero del volley: a Pesaro 57 Les sorcières de l’Orient di Julien Faraut

L’impero della perfezione questa volta coincide con l’impero del sole e si misura sulla distanza delle 258 partite consecutive vinte dalle “Oriental Witches”, le ragazze di Osaka che spazzarono come un tornado l’Europa degli anni ’60, dominando il volley internazionale. Le cronache sportive dell’epoca le soprannominarono così e così Julien Faraut intitola il film che dedica loro, Les sorcières de l’Orient. Ancora una questione di pura materia della volontà, per il regista francese che un paio d’anni fa aveva lasciato un segno fortissimo con L’empire de la perfection, magnifico documento sulla grandezza e la fragilità di John McEnroe. Questa volta, però, al singolo eroe sportivo in lotta con se stesso Faraut sostituisce un team femminile che si confronta con il mondo intero, diventando l’icona della forza di volontà di un popolo uscito esanime dalla guerra. Al dramma psicologico incarnato da McEnroe, Les sorcières de l’Orient sostituisce l’epica collettiva di una squadra di volley femminile, che scolpisce un monumento per se stessa e per il proprio paese. La storia è quella del team di pallavolo femminile di una fabbrica tessile di Osaka, la Dai Nippon Spinning Co., che a metà degli anni ’50 inizia a vincere e vince sempre più, tanto che in due anni finisce con l’essere presa in blocco per rappresentare la nazionale giapponese di volley al campionato mondiale del 1960, dove conquista l’argento. Questo apre la strada a una tournée europea che le vede vincere sempre e guadagnarsi l’appellativo (da loro inizialmente poco gradito) di “Streghe d’Oriente”, col quale conquisteranno l’Oro nel campionato mondiale del ’62 e poi il primo Oro della categoria alle Olimpiadi di Tokyo del 1964.

 

 

Una storia alla quale corrisponde una vera e proprio mitologia dal basso, su cui Julien Faraut ha costruito Les sorcières de l’Orient: l’epica del lavoro duro, che rende possibile il riscatto, coniugata a quella tutta nipponica della coesione sociale, della fusione tra individuo e comunità. Tutto questo applicato al ribaltamento dell’immagine fragile e dimessa della femminilità nipponica nell’iconografia sportiva di questi corpi femminili, liberati dalle volute dei kimono e vestite delle loro forme atletiche, dello sforzo fisico, delle loro uniformi succinte… Quasi a riprodurre il percorso produttivo di quella fabbrica da cui erano uscite, passata nel segno della modernità dalla produzione tessile a quella di lavorati plastici… Quasi a ritrovare una visione della femminilità alla Naruse, in cui modernità e tradizione trovano infine la loro via comune. Faraut racconta queste “streghe” partendo sì dai loro ricordi nell’oggi, osservandole e ascoltandole ora che sono delle anziane signore, ma focalizzando soprattutto la sua attenzione sulla dimensione del mito che quelle ragazze hanno saputo incarnare prima di tutto nella loro terra e poi a livello mondiale. E costruisce il suo film come un diagramma che guarda in trasparenza quelle atlete inarcate nell’epica popolare che hanno costruito e che si è definita nelle immagini documentarie dell’epoca, tutte puntate sulla narrazione degli strenui allenamenti, sull’enfasi sul sacrificio e sull’esaltazione della dedizione assoluta di quelle ragazze. Punto di fuga su cui si costruì subito in Giappone una narrativa popolare elaborata quasi a caldo, con la pubblicazione di un manga, Attack No. 1 (dodici volumi usciti tra il ’68 e il ’70) immediatamente seguito da un omonimo anime (104 episodi, usciti in Italia prima come Quella magnifica dozzina e poi come Mimì e la nazionale di pallavolo). Materia vibrante di immaginario, che infatti Faraut utilizza nella sua ridondanza visiva, come repertorio giocato di contrappunto in sovrimpressione sull’intera impalcatura visiva del film, prima di spingersi nella magnifica narrazione della finale olimpica, un epico scontro con le storiche rivali del team sovietico, affidata alle riprese televisive e dei cinegiornali. La formula utilizzata da Julien Faraut è sempre aderente a un’idea di documentario costruito pressoché interamente su materiale di repertorio, rigenerato con una straordinaria capacità di rimodulazione dei segni: non un solo frammento didascalico resta nelle immagini rimaneggiate, non una virgola meramente descrittiva, tutto assume la potenza visiva di una elaborazione empirica del rapporto tra figura e fotogramma, uno studio preciso della dinamica che si instaura tra lo sforzo dei corpi colti nella tensione agonistica (questione di gesti, psicologia, interazione, introspezione) e lo sforzo dell’immagine di stare in bilico tra la contemplazione e la velocità, tra l’attimo e il movimento. Non siamo ai livelli di L’empire de la perfection, ma Les sorcières de l’Orient conferma la capacità di questo autore di fare grande cinema teorico incarnato in grande cinema sportivo.

 

Olympic Channel: Tokyo 1964 Women’s Volleyball – The Oriental Witches