L’implosione dello spettacolo in Il caso Goldman, di Cédric Kahn

Il film di Khan pone al centro della riflessione il tema della trasposizione della realtà nel contesto di un’opera per il cinema, in quella prospettazione drammaturgica che ogni azione umana possiede e che nel cinema, così come nel teatro o nelle altre discipline rappresentative, diventa posticcia e come tale protesi di una riproduzione degli eventi. Per meglio entrare nel tema è opportuno premettere che il film si riferisce ad un fatto di cronaca risalente alla metà degli anni ’70, il processo che vedeva imputato Pierre Goldman, militante della sinistra rivoluzionaria, accusato di avere compiuto tre rapine, ma soprattutto di avere ucciso due persone durante una di queste. Il film è una lunga e fedele trasposizione del dibattimento in un rincorrersi di voci e di prospettazione dei fatti. Una ricostruzione dunque fedele del processo, in una rappresentazione piuttosto verbosa della accesa dialettica processuale. Tutto ruota attorno alla sceneggiatura firmata dalla francese Nathalie Hertzberg. La scrittura del film nasce dalla unificazione di due processi che furono promossi nei confronti di Pierre Goldman. Nello iato tra realtà e rappresentazione scenica il film di Khan pretende di dire la sua. Ma la domanda in verità ci pare essere un’altra a proposito di questo film, che – per usare un gergo caro ai giuristi di qualche decennio fa – vuole essere una copia carbone del reale, e in questa visione la domanda è: a chi giova?

 

 

In realtà la decodifica di un dibattimento processuale che viene filtrato dalla macchina dello spettacolo e quindi a questa consegnata come oggetto di metabolizzazione scenica, non è materia semplice. Le regole dello scontro processuale sono in realtà rigide e nel film di Khan non appaiono tali, quanto piuttosto quelle deregolate di un talk show politico, dove si ravvisa piuttosto una istintualità protagonistica, che una ordinata serie di interventi disciplinata dalle regole del codice e dalla direzione del Presidente del Collegio, qui invece piuttosto incapace di governare gli interventi e le lunghe difese degli avvocati. Questo, ma ancora peggio, si dica degli interventi non autorizzati dell’imputato che ribatte inammissibilmente, si direbbe, ad ogni piè sospinto. Il problema di Il caso Goldman è il suo sincero desiderio di aderire ad una realtà quasi in presa diretta e pertanto il gradiente di veridicità deve essere mantenuto alto, altrimenti si spezza ogni incantesimo di quella realtà. Il cui prodest diventa necessario e le risposte non sono che negative. Non serve allo spettatore piuttosto smarrito da una verbosità davvero eccessiva e da un accavallarsi a volte fastidioso di ipotesi e veri e propri spin off processuali che portano fuori strada. Non serve al cinema che già altri legal movie ha prodotto e di recente proprio il cinema francese sembra essersi specializzato in questo intricato settore del mercato cinematografico (Anatomia di un omicidio, L’accusa, Un’intima convinzione, Saint Omer, tanto per fare qualche titolo). Non serve perfino alla ricostruzione storica dei fatti se non quale spunto per tirare fuori dal cassetto della storia un personaggio non proprio esemplare come Pierre Goldman, che, al di là dei suoi meriti di difesa dei più deboli, restava pur sempre un rapinatore. In realtà l’intero processo che si svolge sotto gli occhi dello spettatore è dominato dal desiderio del protagonista di far virare il giudizio della Corte non tanto sui reati commessi, ma di esaltare il suo essere ebreo e quindi discriminato per l’antisemitismo diffuso.

 

 
Non si vuole demolire un lavoro di messa a punto fedele, ma l’intera operazione di scrittura e di messa in scena ci pare non risponda ad alcune regole di convivenza tra realtà e rappresentazione. Se il film pretende di ripetere la realtà in un accentuato registro che prescinde da ogni altra fittizia forma di spettacolo, affidando interamente la spettacolarizzazione dell’evento a quella fedele e pedissequa riproposizione sulla scena di quanto avvenuto nelle aule dei tribunali, avrebbe dovuto rispettare le regole del dibattimento processuale e non enfatizzarne il suo svolgimento. In altre parole Il caso Goldman,che resta un film dalla scrittura solida (fin troppo, si dovrebbe anche aggiungere) e quindi anche didatticamente interessante sotto un profilo di resa spettacolare del reale, finisce per disperdere le proprie energie in quella ripetizione che vuole apparire assolutamente fedele del vero dibattimento, senza rinunciare ad una serie di scelte drammaturgiche utili a tenere desta l’attenzione dello spettatore. Ma come sempre accade si finisce per preferire l’originale alla copia. È per questa ragione che ci si domanda a chi giova? Perché il film ci è sembrato piuttosto un esercizio quasi muscolare di rappresentazione, interessante nella sua sfida alla realtà dei fatti, ma senza avere ragionato – così ci è sembrato – sul funzionamento del processo in un’ottica di drammaturgia cinematografica, lontana cioè da quel reale che ritroviamo con maggiore efficacia dentro le aule giudiziarie. In altre parole il film di Khan ci sembra fallisca dentro questa sua stessa forza centripeta che la vicenda processuale sembra innescare, implodendo nella stessa sua materia condensata incapace di emanare luce propria.