L’incerta ricerca di una perduta identità in Gli eroi non muoiono mai, di Aude Léa Rapin su MyFrenchFilmFestival

Dopo avere guardato il film della trentenne regista francese, vengono in mente i giudizi dei professori agli incontri con i genitori: potrebbe fare di più, ma non si applica. Ecco Aude Léa Rapin, avrebbe potuto fare molto di più in questo suo esordio con una buona idea di partenza, perfino folgorante, se fosse stata trattata con maggiore applicazione. Joachim, racconta alla sua amica Alice, forse sua compagna, che di mestiere fa la regista, che un giorno si è visto riconoscere da uno per strada; questa persona gli avrebbe anche detto che era morto il 23 agosto del 1983, che peraltro è lo stesso giorno di nascita dello stesso Joachim, e che prima di morire avrebbe ucciso molte persone. Joachim sconvolto da questo incontro vive nella paura. Dopo un incubo notturno si ritrova sul braccio la scritta Bratunac che Alice gli dice essere una città della Bosnia. Ma Alice non crede davvero e fino in fondo a questa storia della reincarnazione, ma con una leggerissima troupe lo accompagna in Bosnia, a Bratunac, per cercare notizie di questo personaggio fantasma girando al contempo un documentario su questa difficile indagine sulla precedente identità di Joachim. Attorno ad un’idea così, che suggerisce un’assenza, come quella del misterioso operatore Paul evocato durante il film, ma mai in scena, quasi anch’egli fantasma, ma vero deus ex machina di una reincarnazione che possa restituire vita e di un cinema che possa narrare il suo rifiorire, attorno ai nuovi possibili sentimenti, ci sarebbe stata una bella storia da raccontare.

 

 

Con il valore aggiunto di alcuni elementi tipici che da sé stessi inducono al pensiero del cambiamento in positivo, come il road movie e il suo svolgersi in una terra ancora dolorante dopo una guerra sanguinosa e lacerante, Aude Léa Rapin si affida alla forma, spesso utilizzata dai giovani filmaker, del falso documentario, quasi a sottolineare la natura falsa del girato che vediamo, ma al tempo stesso per attribuire alle immagini una oggettività che, pur con le incognite autoriali e i punti di vista della macchina da presa, dovrebbe suggerire una certa verità alle immagini. Ovviamente e non lo pretenderemmo, Aude Léa Rapin non è Herzog – laddove il già trattato Family Romance LLC, tanto per fare un esempio, utilizza, ma stravolgendone i capisaldi, lo stesso registro – ed è così che lentamente, con l’andare avanti della storia, con l’accumularsi di eventi e dissapori all’interno della piccola troupe con Alice che non crede più di tanto a questa storia della reincarnazione, con Joachim che si scopre avere un problema cardiaco che lo potrebbe portare alla morte da un momento all’altro, il filo conduttore sembra diluirsi, la storia si sfilaccia e lo spettatore lentamente perde il mordente. Peraltro, alcune ingenuità di scrittura aumentano questa dispersione che non è benefico detour, ma assomiglia solo ad una mancanza di dominio del tema, dello scopo per il quale il film esiste, e tutto ciò aggrava lo sviluppo della storia.

 

 

In questo breve, ma a volte faticoso cammino si colgono, qua e là, momenti interessanti, spunti abbandonati, perfino quello sguardo malinconico e a tratti profondo con la vedova amica di Alice, visto che c’era l’occasione, avrebbe potuto diventare un tratto più affettuoso sulla Bosnia dell’oggi, il cammino tra i cimiteri che lambiscono le case ancora largamente segnate dalla guerra restano materia fredda, estranea e trascurata la tragica verità che nonostante tutto l’immagine restituisce. L’autrice, in verità, sembra a sua volta incarnare la stessa Alice del suo film. Sembra non crederci, pare abbia fretta di concludere e a volte, invece, largheggia laddove forse dovrebbe sorvolare, creando una specie di superfluo limbo visivo. Il film, purtroppo, non ridefinisce la ricerca di identità che la metafora della reincarnazione dovrebbe, naturalmente, portare con sé, non dà vita ad un rinnovarsi della vita e sembra quasi che dopo un finale, affrettato e perfino dettato solo da una (s)fortunata coincidenza, i personaggi sembrano essere rimasti quelli che erano, nessun mutamento, nessuna emozione ci e li tocca in quel finale, che, se scioglie i nodi della trama, lascia insolute le questioni che riguardano l’impianto di un film che avrebbe avuto delle potenzialità che risultano essere state sprecate. Aude Léa Rapin può fare di più e di meglio, la aspettiamo alla seconda prova.

 

 

 

L’11a edizione di MyFrenchFilmFestival è in streaming fino al 15 febbraio.