Lo sguardo marginale: Rosalie di Stéphanie Di Giusto

Rosalie è portatrice di un senso che va oltre lei stessa. È la figura della donna che desidera essere riconosciuta, accolta, amata per quello che è, non per quello che possiede, per quello che conosce o per quello che sa fare. Potremmo guardarla come una figura fedele alla scena umana poiché il suo desiderio si manifesta come tensione a un qualcosa d’altro mai racchiudibile nel possesso, una tensione in cui è possibile ritrovare la radice stessa dell’identità di ogni essere umano, sempre aperta a un’eccedenza che spiazza ogni pretesa di dominio. Rosalie è figura del desiderio umano, del desiderio di donna che vuole essere sposa (nel senso più letterale del termine “colei che risponde”, in senso più figurato “colei che mette a favore, che dona la propria vita a”) e poi essere madre. Insegue due modi di amare, per sentirsi amata: d’altra parte, un figlio ancor più di un marito, è il segno dell’esperienza di un amore incondizionato che, paradossalmente, rivela una mancanza sorprendente. Rosalie è desiderio e, come tale, s’impone in tutta la sua eccedenza destabilizzando l’ordine prestabilito. Regale e pura come la rosa e il giglio che ne compongono il nome, Rosalie ha un appetito, si nutre di un’attesa, entra in relazione con una condizione, sente un bisogno, ha una sete di vita, ed è rinvigorita dalla promessa di soddisfazione che tutto ciò veicola.
 

 
Comprende che non può decidere di desiderare, è quasi condannata, ma si scontra con una realtà che frantuma la sua speranza rimproverandole la schiettezza, invitandola a confinare, restringere, assimilare la propria identità di donna, madre, figlia. Nel film diretto da Stéphanie Di Giusto l’omonima protagonista (Nadia Tereszkiewicz) è una giovane donna nella Francia del 1870 che nasconde un segreto: fin dalla nascita, il suo viso e il suo corpo sono stati ricoperti di peli, condizione che ovviamente la squalifica rispetto ai parametri di femminilità. Prega insistentemente che le sia concessa la grazia di essere amata e diventare madre finché, un giorno, è concessa a Abel, proprietario di un caffè indebitato, che la sposa per la sua dote senza conoscerne il segreto. Il matrimonio farà i conti con l’urgenza di condividere la propria identità e il peso di una mostruosità che inizialmente desterà stupore e fascino in molti cittadini, poi si trasformerà in giustificazione di intolleranza e discriminazione. Come ogni monstrum, un prodigio che desta attrazione per ciò che mostra e repulsione per come lo mostra, Rosalie è figura di resistenza alla crudeltà, simbolo di una lotta per la dignità che passa dal riconoscimento di un corpo in cerca di essere accolto. In fondo a questo tende il film: guardare Rosalie e non negare il suo sguardo lasciandosi interpellare. La Di Giusto ha dichiarato di essersi ispirata alla storia di Clémentine Delait, donna con la barba diventata famosa all’inizio del XX secolo, protagonista di alcune fotografie che la ritraevano in tutta la sua indefinibile seducente femminilità. E questo aspetto della rappresentazione del corpo femminile mediante la cattura di istanti è al centro del secondo filone seguito dal film.
 

 
A destare scandalo, più ancora della visione reale del corpo di Rosalie, della sua barba e della sua persona, sono le fotografie che sceglie di farsi scattare per mettersi in mostra e farsi conoscere, quindi vedere. Diversamente dal marito Abel (Benoit Magimel) che nasconde le proprie ferite e il proprio dolore, Rosalie mette in scena la sua natura alternativa, animalesca, primitiva e straordinariamente seducente. Una mostruosità splendida in discontinuità totale con la realtà convenzionale che la conduce a interpretare la parte di una freak atipica, un’ambulante che si arroga il diritto al controllo assoluto della propria interiorità e del proprio comportamento esteriore, riducendo a totale irrilevanza la cultura e le norme del mondo. Per questo Rosalie, titolo nominale, è un film sul vedere, sulle immagini che noi scegliamo di veicolare, su come noi percepiamo le immagini degli altri, sul mistero che ciascuno sguardo detiene come cifra di un mondo interiore mai davvero del tutto traducibile. «Mi sono interessata ad altre donne affette da irsutismo – ha dichiarato la regista – la maggior parte delle quali finiva da sola, nelle fiere, ridotta a fenomeno volgare, “freak”. Dopo una lunga ricerca, ho voluto conservare solo ciò che mi toccava della vera storia di queste donne. Non mi interessava fare un biopic. Con Rosalie ho inventato il destino di una giovane donna che si libera abbracciando la sua barba, ma soprattutto volevo esplorare i sentimenti e sviscerare il desiderio. Volevo scrivere una storia di amore incondizionato». Così, anche grazie alla presenza di frammenti onirici e surreali, i toni favolistici si integrano con la pesantezza e la crudeltà di un realismo che mette in luce le tante ombre di una società incapace ad accogliere la complessità della diversità, ieri come oggi. È un film di anomalie che cercano la propria dimensione, armonie infrante, equilibri spezzati, sogni interrotti: attraverso la presenza ingombrante di barba e rasoi Rosalie mette in scena la mancanza, il vuoto, il bisogno di un amore che salva misteriosamente nonostante limiti e incomprensioni ma pure un erotismo inconsueto e nascosto.
 

 
L’imprevedibilità del corpo di Rosalie (espressa dalla bellezza candida dell’attrice e ballerina Nadia Tereszkiewicz) genera un fascino contrastante, magnetico e repellente, ma che trasmette sicurezza, coraggio, audacia, tutto fondato sulla potenza di uno sguardo che cerca altri sguardi e interpella anche quello dello spettatore inevitabilmente stupito da una visione potente, che disorienta e lascia senza fiato. Film di contrasti, e di emozioni contrastanti dunque, dove liscio e ruvido, dentro e fuori, luce e buio, sofferenza e gioia, dialogano di continuo senza soluzione di continuità a dimostrare ancora una volta che i freak sono creature periferiche che demarcano il reale e l’irreale, il vero e il falso, il possibile e l’impossibile, ciò che è permesso e ciò che è proibito. Spettacolo folgorante e malinconico, il film di Stephanie Di Giusto racconta la lotta di una donna contro omologazione, fanatismo e ipocrisia; un film sul nostro presente, in cerca della stessa scena umana desiderata da Rosalie.