L’umanesimo di Spielberg in Il ponte delle spie

On-BridgUn uomo, uno specchio, una tela, un pennello. Il ponte delle spie si apre con una citazione del Triple Self-Portrait di Norman Rockwell ponendoci il primo dei tanti interrogativi che Steven Spielberg dissemina nel suo film: cosa vede un uomo della sua immagine riflessa allo specchio? Un autoritratto è fissare su carta la nostra figura o semplicemente il suo doppio? Quell’uomo è una spia, viene immediatamente arrestato, riesce a nascondere solo in parte le prove della sua colpevolezza, agisce con la calma consumata di un attore che calca le assi di un palcoscenico ben conosciuto. Siamo nel 1957, anno apicale della Guerra Fredda: l’opinione pubblica ha bisogno di un nemico da punire e il disgelo kennediano ancora non ha fatto la sua comparsa all’orizzonte. Rudolf Abel è un uomo “spendibile”: si chiede un processo lampo e una condanna esemplare. Gli Stati Uniti però vogliono apparire come una potenza severa ma giusta – per ribadire una presunta superiorità morale nei confronti dei sovietici – e al prigioniero garantiscono una difesa congrua che viene affidata a un avvocato di Brooklyn, James B. Donovan, curriculum integerrimo di cause assicurative con una significativa partecipazione al Processo di Norimberga, da cui si pretende un comportamento da marionetta nelle mani del potere politico. Nella prima parte del film Spielberg scruta i suoi due protagonisti, li mette uno di fronte all’altro come in una partita a scacchi, presenta la lealtà di entrambi, il primo al proprio paese e il secondo ai propri ideali (o viceversa). Durante il processo però un’incursione aerea americana nei cieli sovietici porta alla cattura di un militare statunitense. Si aprono gli spiragli della diplomazia e della trattativa a squarciare il velo di irremovibilità dei rapporti di forza internazionali. Qui, costretto dal precipitare degli eventi a occuparsi dello scambio di prigionieri, Donovan si tramuta da uomo di legge a uomo d’azione, affronta la Berlino divisa dal muro in costruzione e si fa egli stesso ponte tra posizioni inconciliabili, arma di speranza di un mondo in assetto di guerra.

cinema-il-ponte-delle-spie-05

 

Donovan è un prototipo del cinema spielberghiano: uno Schindler della diplomazia, cosciente che ogni vita salvata è riconquista di un bene inestimabile. La barra morale sono i principi della Costituzione americana: un “manuale di istruzioni” che miscela patriottismo e idealità, pragmatismo e libertà assolute. Donovan non è un liberal ma è uomo dalle terrene idealità: crede che l’obbedienza agli or606x340_314685dini valga su entrambi i lati della barricata, coglie limpidezza morale nello sguardo piano del suo interlocutore, basa le sue convinzioni su un’adesione naturale ai valori americani. E crede, come Atticus Finch, che nella garanzia di un giusto processo si nasconda la parte più viva della democrazia americana. Spielberg accompagna il protagonista attraverso una selva di implicazioni morali, lo carica di un senso profondamente politico di responsabilità, guarda al bene collettivo facendolo discendere dalla salvezza di un singolo individuo, mette in scena i dialoghi diplomatici come uno spettacolo teatrale in cui ognuno recita una parte necessaria, testimonia la trappola identitaria di un mondo polarizzato mettendo da parte ogni discorso manicheo su Bene e Male per calarsi nella complessità del reale. Nella sua missione berlinese, sgomento dall’insorgere di muri invalicabili fatti di mattoni e di ragioni di Stato destinati a popolare i suoi incubi futuri, Donovan si fa strumento di giustizia e pacificazione. L’uomo, ogni uomo, per lui è l’unico fine possibile di ogni possibile missione. L’irragionevole lealtà che lega Donovan e Abel è costruita come punto di arrivo di un percorso di limpida fiducia. Spielberg guarda al cinema del passato – con profumi di Capra, Preminger, persino di Hitchcock – per dosare il passo lento di un film di spionaggio che sul ragionamento e non sull’azione butta le sue solide radici. Le dissolvenze incrociate, i giochi d’ombra, l’uso reiterato del montaggio alternato sono tutte testimonianze stilistiche di un film alla continua ricerca di un dialogo con l’altro, illuminato dal desiderio di mettere in contatto due estremità contrapposte alla ricerca di un terreno comuneil-ponte-delle-spie. Il ricorrente prevalere del controluce sfuma i confini sempre meno netti di quella che da una guerra di Stati può trasformarsi in un atto di fiducia tra uomini. La sceneggiatura di Matt Charman e dei fratelli Coen dona brillantezza alle numerose scene di dialogo di un film che resta però principalmente un monumentale e concretissimo saggio di regia. La testardaggine nelle proprie convinzioni, per Spielberg, è il motore che può salvare il mondo e nasce sempre da un atto morale individuale più che collettivo. Il patriottismo del film forse si nasconde proprio qui: nella volontà ferrea di credere che gli uomini possano condizionare i governi, che la Ragion di Stato possa piegarsi a un senso più alto di giustizia. La redenzione è nelle scelte dei singoli, nella capacità di intuire nella penombra del berlinese Ponte di Glienicke ombre di uomini e non di nemici. La lettura storica di Spielberg, esempio limpido di contemporaneo cinema etico, è mossa da un profondo umanesimo che ha un valore ben radicato nel nostro presente di eterno post-11 settembre: l’innocenza è un valore che può essere riconquistato; ogni azione è generata da una scelta libera e necessaria, proprio come in Munich, in War Horse, in Lincoln. Del resto, come nell’autoritratto di Rockwell, ogni azione che decidiamo di compiere è figlia di una dinamica triangolare tra noi stessi, la percezione che abbiamo di noi e la capacità di rappresentarci. E ogni scelta, nessuna esclusa, può essere decisiva per i destini del mondo.