Il falso movimento di Mes petites amoureuses di Jean Eustache

Si tratta di cristallizzare il tempo e farlo muovere. Contemporaneamente. All’interno di ogni immagine, inquadratura, scena. Una serie di immagini, inquadrature, scene che sembrano immobili, fissate, cristallizzate, eppure si muovono, mai statiche, sempre in movimento. Un falso movimento che definisce una serie di “istantanee” di nitida espressione flagrante inscritta nella ripetizione dei gesti, degli sguardi, delle parole. Per parlare d’amore. Intrise d’amore, di primi comportamenti d’amore, di sentimenti sboccianti, accennati, rinviati, ritornanti. Visti e narrati in prima persona da un ragazzo che sta scoprendo gli albori delle inquietudini sessuali, osservando e agendo, ritraendosi e avanzando senza sosta, complice anche il buio di una sala cinematografica, la passione per il cinema, gli “esempi” che dallo schermo si prolungano oltre di esso, in chi sta guardando/partecipando, concentrato e dis-tratto da chi gli sta intorno, qualche poltrona di distanza. Mes petites amoureuses, “le mie piccole innamorate”, “le mie piccole fidanzate”, come recita il titolo del film, anch’esso, fin da esso, nel segno della prima persona, della “soggettiva” poi mai abbandonata nel corso delle due ore di durata (suona quindi meno pertinente il sottotitolo italiano di questo gioiello di Jean Eustache del 1974 “per la prima volta nelle sale italiane” da qualche giorno e imperdibile e che recita I miei primi piccoli amori, ovvero una sostituzione dal preciso riferimento femminile originale a uno neutrale che costituisce un allontanamento dalla specificità soggettiva contenuta nel titolo francese e “rivendicata” da tutti i piani visivi e narrativi che la esprimono).

 

 

Protagonista di Mes petites amoureuses, che il cineasta francese scomparso nel 1981 a 42 anni realizzò un anno dopo La maman et la putain, è l’adolescente Daniel che abita con la nonna in un villaggio, è bravo a scuola, va a zonzo con gli amici, fa dispetti alle ragazze, “registra” (anche nelle poche fondamentali frasi pronunciate come voce narrante) i primi turbamenti sessuali, fin quando la madre (Ingrid Caven, di fassbinderiana memoria filmica e personale) tornata con il nuovo compagno lo strappa da quel luogo affinché vada a vivere con lei in una cittadina e in un piccolo e triste appartamento. Tra il villaggio e la cittadina c’è un lungo viaggio in treno che Daniel compie da solo. Mentre una nuova realtà lo attende: niente più scuola e primo lavoro in un negozio di ferramenta e riparazione di biciclette. Eppure Daniel guarda altrove. Al viale dove maschi e femmine del posto passeggiano in coppia o in cerca di nuove storie. Ai vicoli dove si consumano amori furtivi. Al cinema che proietta classici (e Eustache dichiara il suo amore per Pandora – passione visionaria filmata da Albert Lewin nel 1951 con James Mason e Ava Gardner -, l’unico film tra quelli che Daniel va a vedere, per vederlo e per flirtare, di cui si vedono diverse immagini, una anche a tutto schermo – un amore cinefilo in seguito corrisposto da Martin Scorsese che lo ha restaurato). Non gli resta, oltre al lavoro, che errare come un flâneur negli spazi della cittadina e nei suoi dintorni, da solo o con la banda di amici, sostando al bar o scorrazzando in bicicletta verso mete e l’impaccio di avvicinare “piccole fidanzate”. Per poi tornare in vacanza al villaggio, ritrovare la nonna, gli amici di prima, e continuare la sua esplorazione di sé e dell’altro in giro per la campagna. Fino all’ultima scena, sulla quale scorrono i titoli di coda, mentre lui e i coetanei si allontanano lungo un prato.

 

 

Daniel (l’esordiente quindicenne Martin Loeb, che alterna distacco e empatia per una precisa scelta estetica riguardante tutti i personaggi, tenuti a “distanza” dalle emozioni pur nutrendosi di esse), nel suo percorso di formazione – in un film che ne richiama e/o anticipa altri e/o dialoga con il cinema di altri autori (non è il caso di citarli per costruire paragoni, l’importante è evidenziare quel “qualcosa nell’aria” diffuso in tracce di cinema senza confini che condividono sentimenti al di là di parentele fastidiose da enunciare) facendo però sempre esplodere una propria unicità e trasparenza – ha le idee ben chiare e lo afferma in un dialogo con un amico. Gli dice che in un libro ha letto di un insegnante che ogni anno ripeteva le stesse lezioni sulla passione amorosa in Racine e Corneille fino a che le parole perdevano senso e autenticità, aveva letto e imparato quei testi ma non li aveva vissuti, mentre lo studente sentiva che nella sua vita quelle passioni le avrebbe fatte proprie. Sta qui il cuore del film, e del cinema di Jean Eustache. Imparare non basta (anche se è necessario, e Daniel vorrà tornare a studiare, da autodidatta per poi sostenere gli esami, pur se non sarà semplice) se ciò che si è imparato non viene tradotto in esperienza, inciampi, tentativi, riuscite, fallimenti, nuove possibilità.

 

 

Mes petites amoureuses in tal senso è un’opera esemplare e per nulla invecchiata. Ed è un’opera collettiva più che corale. I tanti personaggi messi in campo, in brevi apparizioni o con più spazio dato loro dalla sceneggiatura, danno il senso di un film collettivo, testimoniato dal lungo elenco di interpreti e maestranze che scorrono sui titoli, uno dopo l’altro, come un flusso. Tra loro c’è anche Maurice Pialat in una piccola parte. Che dieci anni più tardi, nel 1983, firmerà uno dei suoi film più intensi il cui titolo, À nos amours, richiama (per analogie concrete o per espressione fluida di quel “qualcosa nell’aria” che sempre si va cercando nella dimensione del tempo cristallizzato e del movimento) proprio Mes petites amoureuses con fondamentali variazioni lessicali ma intatta potenza nel decriptare i tanti capitoli/frammenti di un discorso amoroso singolare/plurale e viceversa.