Miracle – Storia di destini incrociati di Bogdan George Apetri: l’irriducibile messa in scena di un’altra giustizia

 

Essendo un film costruito intorno alla percezione del dubbio, ovvero un film che vuole restituire l’immagine di un’incertezza, di qualcosa che non è evidente ma si sente, sgomberiamo subito il campo da qualsiasi equivoco che possa distogliere lo sguardo: Miracle – Storia di destini incrociati di Bogdan George Apetri in nessun caso può essere considerato un film formale, devoto a qualche teoria cinematografica, appiccicato al desiderio di seguire le orme di uno stile a suo modo iconico come il cosiddetto neorealismo rumeno. Anzi, come dichiara lo stesso Apetri, qui al suo terzo lungometraggio dopo gli apprezzati Unidentified e Outbound, Miracle è come se ne decretasse «la fine, con dei tratti chiaramente personali. Mentre in superficie il film prende in prestito alcuni dei modelli cinematografici caratteristici della New Wave rumena, in realtà te li fa esplodere in faccia proprio alla fine, mettendo il pubblico di fronte a una verità filmica ed emotiva molto più profonda. Il mio film non parla di stile, nemmeno per un secondo: la sua forma è racchiusa nel suo stesso significato. L’uno non può fare a meno dell’altro».

 

 

Secondo capitolo di un’ideale trilogia ambientata a Piatra Neamţ, città natale di Apetri, Miracle è un film spaccato in due parti, speculari ma di segno opposto: la prima ha come fulcro la giovane (suora?) Cristina aggredita e violentata brutalmente dopo essere fuggita dal monastero isolato in cui si trovava per occuparsi di una questione urgente e misteriosa; la seconda segue la vicenda di un ispettore di polizia ossessivamente coinvolto dalle indagini per risalire al colpevole dell’aggressione alla giovane donna. Il film è costruito seguendo un meccanismo di simmetrie e richiami, ellissi e svelamenti per invitare lo sguardo dello spettatore ad andare oltre la soglia del visibile, a guardare la consistenza delle assenze: l’immagine oscura di un corridoio vuoto che si apre verso una finestra, il soffio del vento (e dello spirito?) che muove gli alberi del bosco mentre Cristina si cambia di abito (e di identità?), la distanza della macchina da presa e la conseguente ambiguità nella messa in scena del crimine durante la sequenza principale che rimanda alla profondità effimera e suggestionabile dello sguardo ma anche l’irrappresentabilità del fenomeno (un miracolo?) con cui il film si chiude.

 

 

Non si può non pensare ad Hitchcock, ovviamente, anche perché si racconta la vicenda di una donna che pare voglia costruirsi una nuova identità (come in Vertigo) e protagonista per mezzo film (come in Psyco), ma in questa netta separazione e in questo continuo gioco di apparizioni e sparizioni, Apetri sembra voglia restituire l’immagine di una Romania al vaglio del tempo: una parte ancorata alle tradizioni, corrotta, ferma, disinteressata a cambiare atteggiamento, un po’ come testimonia uno dei clienti che sale sul taxi insieme a Cristina all’inizio del film, un po’ come tiene a ribadire la radio incessantemente accesa e pronta a trasmettere canzoni d’epoca o, come nel caso di un altro automobilista, che ascolta ancora Ricchi e poveri, Toto Cutugno, Al Bano e Romina, Gica Petrescu, ovvero l’Elvis rumeno; un’altra parte freneticamente, e quindi in modo non meno drammatico, disposta a ripulire il prima possibile quanto di marcio la società ancora si porta dietro. Un paese, due visioni. Pensando ai contenuti che il film sviluppa, ai toni solenni con cui li declina, ai tempi dilatati, alla tensione generata dallo scontro tra immagini ieratiche e azioni pragmatiche, soprattutto pensando all’evolversi del suo intreccio e al suo epilogo, facilmente si potrebbe pensare che per Apetri si tratti di una netta demarcazione tra spirito e materia, fideismo e razionalismo. Non è così. O, almeno, non è solo di questo che si tratta. Oltre a questo aspetto più filosofico, è chiaro che al regista interessi realizzare un film politico conducendo una riflessione sulla giustizia umana in rapporto a un’altra giustizia, più alta e distante (divina?). Mettere in scena l’inspiegabile, negare ogni forma di artificio cinematografico lasciando assoluta libertà alla macchina da presa, avanzare anche soltanto l’ipotesi di un miracolo per risolvere il tragico epilogo, connettere quella sagoma nella pozzanghera alla lacrima di Cristina, non solo è una scelta che spazza via tutto il già visto e il già sentito, ma è anche un modo per instillare l’ennesimo dubbio nella coscienza dello spettatore: ma è lui il vero colpevole? Questa è l’unica giustizia che si conosce? Un’opera di traduzione del reale e di inevitabile tradimento della realtà, che lascia sgomenti e senza fiato, colmi di domande e di immagini da riguardare.