Una storia di ordinaria anormalità americana, raccolta fra tante, come da programmatico incipit, con l’occhio della mdp che “insegue” varie donne tra la folla, fino a scegliere la sua protagonista Luciana (la splendida Ana Asensio, che scrive, dirige, interpreta). Ma in quei pochi minuti c’è più di un’ordinata compilazione di eventi, si avverte già il febbricitare problematico di una metropoli che accomuna storie tanto diverse tra loro, dove la scelta si sposa alla casualità. Praticamente tutto quello che arriverà dopo: la scelta sarà infatti determinante nel destino di Luciana verso la sopravvivenza, quella che la spingerà dall’estroflessione iniziale alla claustrofobia finale. E la casualità (quella che quando riusciamo a governare diventa fortuna) la metterà di fronte alla prova più difficile. È un film di movimenti, questo Most Beautiful Island: si parte da quelli scomposti e quasi impazziti del continuo girovagare di Luciana fra mille piccoli lavori e doveri per cercare il proprio posto in una New York aliena. Perché lei è un’immigrata senza permessi né soldi, in fuga da un destino che si è lasciata alle spalle nella natia Spagna, per reinventarsi e gettarsi in pasto alla Grande Mela. Rinascere, forse morire, come correre eppure volersi fermare: queste spinte oppositive sono sintetizzate proprio dalla cesura abbastanza netta tra le due parti del racconto. Nella prima, così libera, ostinatamente metropolitana, si ritrovano gli schemi del cinema di Larry Fessenden che qui produce e interpreta un piccolo ruolo. C’è uno sguardo inquieto, ma goloso, curioso verso il mondo e il variegato macrocosmo di differenti destini che si incrociano anche solo per un momento, in una cifra documentaristica che però è anche capace di lirismo. Anche qui si gioca con registri quasi opposti: perché la spinta vitalistica di chi cerca la sua “isola (felice) più bella” si accompagna all’inquietudine sempre crescente di una protagonista che non sa evidentemente tenere insieme i pezzi del proprio quotidiano, subisce il destino che si è lasciata alle spalle, riverberato dalle telefonate con la madre, e odia i lavoretti che di volta in volta si trova a fare. Finché una collega non le offre un’occasione insperata: tanti soldi, poco impegno, con una serata a fare da modella in abito da sera, un po’ sexy, per ricchi clienti annoiati.
La messinscena da qui in poi cambia, assume una geometricità che ha fatto ricordare – con i debiti distinguo – gli scenari di Eyes Wide Shut. Le donne sono disposte a semicerchio e attendono di sapere quale sarà il loro destino. La Asensio è tanto rigorosa nel controllo della scena quanto brava nel trasmettere il coacervo di opposte sensazioni che prova Luciana: piccoli scarti del corpo, microespressioni in grado di riassumere il mondo interiore, si sposano al momento della prova in cui l’immobilità dice più di tanti gesti. È qui che il film diventa uno Tzameti al femminile, teso, tagliente, ma sempre capace di passare in rassegna stati d’animo diversi attraverso micro scarti e particolari. Si nota tutta la complessità emotiva di un ritratto al femminile che riassume in un sol colpo le forbici sociali dell’America conservatrice e il dramma della violenza di genere seppur auto indotta dalla disperazione di chi ormai non può che andare fino in fondo. Con lo stesso piglio da entomologo con cui ingrandisce gli insetti che fanno irruzione nell’appartamento di Luciana, il film scava in profondità mentre lavora sulla superficie, quella degli spazi cittadini ora strabordanti di particolari, ora disadorni negli interni in cui si svolge la sfida finale, fino a quello del corpo spogliato di ogni barriera e sottoposto alla prova più dura. Su tutto domina la fisicità nervosa e al contempo forte e fragile di Luciana, disperata eppure umanissima, capace perciò di definire completamente un racconto in apparenza molto semplice, ma straordinariamente coinvolgente. Un’opera prima già apprezzata (e premiata) al SXSW e che speriamo di ritrovare preso in sala, dopo l’anteprima al Torino Film Festival nella sezione After Hours.