Nascita di una nazione: C’era una volta in Bhutan di Pawo Choyning Dorji

Essere felici e vivere in comunità: un modo di essere, a partire dal riconoscimento di sé, e un modo di vivere, a cominciare dal godere beatamente dello stare insieme. È questo l’orizzonte inquadrato da Pawo Choyning Dorji regista di C’era una volta in Bhutan, sua opera seconda che prosegue nell’esplorazione antropologica del proprio paese mentre offre uno spaccato culturale e spirituale meno lirico ma più pragmatico di quello messo in scena nel suo esordio, quel Lunana – Il villaggio alla fine del mondo che ha permesso a tutti di conoscerlo e apprezzarne il talento etnologico. Questo secondo film dal titolo leoniano non racconta una favola accomodante e nostalgica sul tempo e sul suo modificarsi, come potrebbe fare intendere, poiché è interessato ad accostare qualcosa di inaudito che l’originale The monk and the gun fotografa con maggiore audacia: un dualismo graffiante e provocatorio, un’intuizione fondata sull’accostamento dell’uomo all’arma da fuoco, del soggetto all’oggetto, della natura alla cultura. Un titolo che immediatamente richiama al mito, affondando nelle radici della storia del Bhutan, che espone lo spettatore a fare i conti con i limiti e le potenzialità di un popolo, di una terra, di un’idea che era (lo è ancora?) distante dal mondo della contemporaneità e si impegna a preservare il proprio status. È ancora una questione di opposti che si attraggono, che entrano in dialogo e si respingono. Contrasti, distanze, confini da ridisegnare, cesure storiche, equilibri da mantenere: C’era una volta in Buthan insieme a Lunana – Il villaggio alla fine del mondo compone un ideale dittico che il regista Pawo Choyning Dorji ha dedicato alle contraddizioni del proprio paese, al centro di una delicata fase di cambiamento e transizione.

 

 
Se nel precedente questa complessità era rappresentata con leggerezza e lirismo dal continuo dialogo tra cielo e terra, tra ciò che stava in alto e ciò che stava in basso, in questo secondo lungometraggio la differenza tra dentro e fuori, tra Buthan interno e Buthan esterno, assume il ruolo di veicolo per rappresentare una transizione culturale lenta e difficile che, come si può intuire dalla vicenda raccontata, è tesa a fotografare l’identità di un popolo e la storia di una terra posta di fronte al contrasto tra i valori tradizionali, culturali e spirituali del Bhutan rurale, e l’inclinazione moderna, incentrata sull’occidente del Bhutan urbano in via di sviluppo. Natura e uomo al centro di una relazione che fa i conti con la Storia; memoria e tradizione al cospetto del tempo. Chi siamo e chi siamo chiamati ad essere? Un film ironico che sceglie di diventare specchio artistico in cui ciascuno può guardare il riflesso delle proprie storie. Una sorta di satira che guarda a distanza ogni schieramento definitivo a costo di una neutralità insipida. Non casualmente Dorji evita di schierarsi per forza a favore della democrazia, della modernità, del progresso o contro le armi in virtù di una riflessione più ampia e profonda che coinvolge emozioni e sentimenti. Il “c’era una volta” del titolo immerge lo spettatore nel 2006, anno durante il quale la modernizzazione come un vento che soffia costante da tempo, sfonda i confini e consente al Bhutan di diventare l’ultimo paese al mondo in grado di connettersi a Internet e alla televisione, spingendolo a compiere l’ultimo definitivo passo evolutivo dalla monarchia alla democrazia. Così, per insegnare alla gente a votare, le autorità organizzano una finta elezione ma nei villaggi in cui le persone non conoscono la propria data di nascita, registrare gli elettori si rivela una vera e propria sfida. Inoltre, essendo assente ogni forma di conflitto politico, molti guardano con diffidenza l’avvento della democrazia. Accanto a questo evento epocale, nel villaggio di Ura, un anziano Lama, turbato dai possibili esiti dello straordinario cambiamento che sta per travolgere il suo paese, ordina a un giovane monaco di procurarsi un paio di fucili; nel frattempo, un americano collezionista d’armi antiche, arriva in Bhutan con l’intenzione di offrire una grossa somma di denaro in cambio di un prezioso fucile del XIX secolo.

 

 
Mentre il paese si interroga sulla necessità di un cambiamento non richiesto, ma a quanto pare inevitabile, la storia particolare di alcuni uomini riflette il sentimento diffuso di scetticismo e sfiducia nei confronti di un tempo che sembra voler guardare avanti dimenticandosi del proprio passato. L’efficace apologo pacifista punta così sull’accoglienza del dono della vita che in ogni circostanza ci è offerto (e la soggettiva del Lama che punta il fucile unita al seppellimento delle armi sono i due momenti vertice della sua espressività politica) e, con la luminosità che caratterizzava anche il precedente Lunana, fa da contrappunto all’interrogativo sulla felicità al tempo della globalizzazione: è possibile percepire un’idea di felicità diversa? Cosa significa essere felici oggi? Consumare, realizzare, possedere? Nel paese considerato “più felice al mondo”, per i bhutanesi non una banale trovata di marketing ma un principio guida radicato nella cultura e spiritualità, si legge nella sua prima Costituzione che “lo scopo di un governo è quello di fornire felicità al suo popolo, e se un governo non può fornire felicità, non ha motivo di esistere”, cosa significa bere una lattina di Coca Cola? Che conseguenze comporta guardare i film di 007? Il Bhutan è un paese diverso da qualsiasi altro paese al mondo: a metà del Novecento testimone della caduta di regni buddisti simili, quelli del Tibet di fronte alla Cina e del Sikkim annesso all’India democratica, ultimo regno buddista rimasto il Bhutan ha deciso di isolarsi, separarsi dal tempo, trasformarsi in utopia per proteggere la propria sovranità e cultura.

 

 
Da qui si parte. E se il monaco simboleggia la tradizione, il fucile è figura di modernità, oggetto non autoctono ma proveniente dall’esterno, novità che altera gli equilibri. Alla luce di questo, non è casuale la presenza di un altro elemento simbolico, quel fallo di legno che si intravede nel finale che nella cultura del Buddhismo Vajrayana rappresenta il superamento di emozioni e inibizioni per raggiungere l’illuminazione. Una sorta di benedizione che nel tempo ha smarrito la sua consistenza tra gli abitanti bhutanesi proiettati in un mondo contaminato da tecnologia e consumismo. In questo film si suggerisce un nuovo modo di intendere la felicità fondato non solo sulla propria percezione individualistica ma aperto alla contemplazione di una felicità altra, vissuta anche dagli altri in cammino verso la stessa meta. Un’utopia, forse.