Nuotare con gli outsider: Avatar – La via dell’acqua di James Cameron

Si torna su Pandora, tredici anni dopo i fasti del primo Avatar e le discussioni circa la sua struttura narrativa classica e apparentemente banale, con tanto di paragoni verso modelli più celebri come Pocahontas o Balla coi lupi – ma forse sarebbe più corretto pensare al ciclo di Barsoom di Edgar Rice Burroughs. Poco ci si è adoperati invece per comprendere come la familiarità dell’intreccio fosse sotterraneamente collegata proprio a una riflessione tematica sull’identità, sulla sottile distinzione fra il conoscibile e l’ignoto, il reale e il virtuale, propria del capolavoro cameroniano. L’autore canadese, infatti, offriva abilmente l’esplorazione di uno spazio nuovo (il mondo di Pandora) attraverso gli occhi di un personaggio volutamente privo di identità propria: Jake Sully è un outsider in un mondo perfettamente codificato, costantemente respinto da tutti. Il corpo con disabilità gli attira gli scherni degli altri marines, gli scienziati lo respingono in quanto ex militare e le alte sfere del progetto Avatar lo sfruttano per recuperare l’investimento effettuato sul fratello gemello, di cui è visto come un mero rimpiazzo. Ancora, gli Omaticaya lo ritengono un demone e starà a lui trovare un proprio spazio abbracciando proprio la sua eccezionalità, diventando il guerriero mitico Toruk Makto. Tutto questo mentre Cameron ci guida alla scoperta di Pandora ossequiando la logica di una wilderness fantascientifica, dove cioè il ritorno a una dimensione naturista e tribale rappresenta lo stadio ultimo dell’evoluzione tecnologica (e del suo pensiero autoriale): un’esperienza extra corporea dove Eiwa, lo spirito di Pandora, è di fatto un enorme server con cui connettersi per raggiungere la pienezza.

 

 

Dove quindi Jake Sully può finalmente far avverare il desiderio di avere una sua completezza – e solletica davvero molto pensare che questo sfoggio tecnologico che lo spettatore è chiamato a condividere altro non sia che il sogno di un Sully ancora in criostasi. È chiaro dunque come Avatar non sia fruibile esclusivamente quale semplice racconto, ma come esperienza cinematografica su più livelli. Il secondo capitolo della saga prosegue la naturale evoluzione di questo pensiero: se il precedente film era fondato principalmente sul vedere (“Io ti vedo”), stavolta è una questione di respirare, di trattenere l’aria in apnea per 191 minuti mentre una nuova porzione di mondo si rivela, quello acquatico. Più di un decennio di pace è quindi trascorso, Jake e Neytiri hanno formato una famiglia, ma i terrestri sono tornati e sono di nuovo sulle loro tracce, ragion per cui il gruppo è costretto a lasciare il suo popolo e a cercare rifugio presso la tribù acquatica dei Metkayina. Quello che non cambia è l’attitudine con cui Cameron ancora una volta cerca il punto di vista dell’outsider: quello del giovane Lo’ak, che non si sente all’altezza delle aspettative del padre Jake e stringe perciò un legame speciale con Payakan, una creatura acquatica creduta erroneamente feroce a causa di alcune morti provocate invece dai balenieri umani.

 

 

Oppure quello di Kiri, nata misteriosamente dall’avatar della dottoressa Grace Augustine e che dimostra una speciale connessione con Eiwa, ma anche una possibile predisposizione all’epilessia. Oppure ancora – ed è sicuramente la mossa più inaspettata – quello di un clone Na’vi del Colonnello Quaritch, l’indomabile cattivo del primo film, che vede in questa nuova vita la seconda occasione di essere un padre migliore per il giovane figlio Spider abbandonato su Pandora e cresciuto dai Sully. Il punto di vista “anomalo” di volta in volta prescelto è dunque sempre indice di un ribaltamento delle certezze e delle convinzioni (e convenzioni) acquisite. I personaggi vengono perciò messi di fronte al ripensamento dell’identità propria e altrui, attraverso una serie di scelte che determinano le loro azioni e anche la progressione del racconto. La via dell’acqua è per questo un film più “liquido” del predecessore, con personaggi che enunciano certezze (l’unità famigliare, la voglia di non cedere nulla al nemico) ma nel tentare di difenderle sgretolano i loro microcosmi e si scoprono incompleti. La trasversalità di sguardo cameroniana è insomma diventata esperienza diffusa, amplificata dalla dinamica transgenerazionale e dalla necessità di ripensare anche il rapporto con il nuovo spazio acquatico da esplorare.

 

 

Ancora una volta, insomma, Cameron invita a non adagiarsi sulle apparenze date dalla familiarità, ma ad abbracciare invece l’adattamento e l’alternativa, e in questa prospettiva si pone anche la morale ecologista, stavolta declinata nel segno del rispetto degli oceani. Ciò che funziona meno rispetto al precedessore è la mancanza di un punto di vista differente che sia però davvero “altro”. Con la dicotomia alieni/umani resa più evanescente da un’articolazione per la maggior parte interna alla comunità Na’vi (non va dimenticato che lo stesso cattivo Quaritch ora fa parte della stessa specie), il film risulta più monocorde del precursore, frammentato com’è lungo brevi archi narrativi dedicati ai singoli personaggi e le loro piccole grandi diversità, complice anche una certa uniformità e seriosità di tono, perennemente sospeso tra il drammatico e l’estatico. Un film insomma che chiede più fiducia allo spettatore, pur all’interno di un’ampia struttura non priva di lampi di grandissimo cinema, basti pensare all’emozionante e grandioso duello finale, quasi una parafrasi dell’affondamento del Titanic in un’atmosfera infuocata alla Terminator 2. Un film comunque da rivedere anche alla luce dei successivi capitoli cui è delegata la risoluzione di molte tracce narrative. Ci sarà ancora di che sognare, insomma.