Paradise. Una nuova vita di Davide Del Delgan: per vincere bisogna sorprendere

 

«Ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna,

un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene» (Paolo Cognetti, Le otto montagne)

 

C’è la montagna come luogo geografico lontano, freddo, ostile, difficile da raggiungere perché “in alto”. Qui è quella del Friuli, a Sauris, villaggio che conta circa quattrocento abitanti situato nella regione della Carnia in Val Lumiei. Sauris che nel locale dialetto si pronuncia Zahre parola legata al significato di corso d’acqua, lacrima. Di acqua se ne vede poca perché, qui, c’è tanta neve. Le lacrime invece si sentono, neanche troppo distanti.
Ma, soprattutto, c’è anche la montagna intesa come luogo dello spirito, mondo protettivo e accogliente, che riguarda un “altum”, quella dimensione profonda a cui tende Paradise. Una nuova vita, il primo lungometraggio diretto da Davide Del Delgan. Film dai connotati strambi e dall’andatura sghemba, con i toni leggeri della commedia nera Paradise è capace di raccontare una storia di riconquista dell’identità ma anche di resistenza e giustizia.

 

 

Uomo ordinario dalla scelta straordinaria, siciliano, venditore di granite, un giorno Calogero assiste a un omicidio di mafia e decide di testimoniare. Impacchettato e spedito sotto copertura tra le montagne del Friuli, a Sauris, un villaggio di gente ospitale, ma che lui fa fatica a capire, prova a trovare un suo spazio integrandosi in una realtà completamente diversa e profondamente distante da tutto ciò che ama. Tra le nevi e nessuno a cui vendere granite, Calogero si ritrova solo, spaesato, soprattutto disperato dal rammarico per aver smarrito il contatto con la sua famiglia, che si è rifiutata di seguirlo, e con la sua unica figlia, che non ha neanche fatto in tempo a veder nascere. A Sauris, un giorno, nel suo residence Paradise arriva un uomo che scompiglierà nuovamente la sua vita.

 

 

Il primo lungometraggio di Del Degan, scritto da Andrea Magnani, già regista di Easy – Un viaggio facile facile, assume i contorni tragicomici attingendo dalla lezione del cinema di genere e d’autore, dove la scuola di partenza è la commedia all’italiana. L’utilizzo della fisicità come chiave di un umorismo talvolta grottesco risalta la tragicità dei personaggi liberandoli da ideologie e missioni sociali per fare emergere tutti i contrasti che li contraddistinguono. Come accadeva in Easy, dove il road movie dava forma a un vero viaggio alla scoperta dell’anima in cui il protagonista Isidoro faceva i conti con le trappole della propria esistenza. E se in quel caso prevaleva il dinamismo, qui, in Paradise, esplode un senso di attrazione nei confronti di una staticità che è soltanto apparente perché fortemente legata all’edificio del residence Paradise che nonostante le luci al neon e i corridoi oscuri e malinconici racchiude le geometrie giuste per ritagliarsi un angolo di mondo per riappropriarsi della propria storia. Un luogo di rinascita in cui si abbattono i confini e si prende a schiaffi, letteralmente, la morte. Come ha dichiarato Del Degan: «Così paurosamente vicini, i due cominciano a conoscersi e a capire che per loro una nuova vita è possibile. Calogero da vittima disorientata dalla situazione prenderà via via coraggio fino a diventare padrone del proprio destino. I silenzi della montagna e del manto nevoso, gli spifferi del vento sui pini, gli scricchiolii della foresta e i versi degli animali che la abitano saranno le atmosfere che accompagneranno Calogero e il Killer nella loro nuova vita». Film di equivoci e paradossi, in fondo Paradise è la storia di un buono, che incontra un altro buono, in grado di sorprendere il cattivo e urlargli in faccia il proprio nome, girare i tacchi, andarsene altrove e lasciarsi alle spalle il passato per scrivere nuove pagine. Una favola, come sempre, da prendere sul serio.