Ritornare a sé stessi: A passo d’uomo di Denis Imbert

«Della pianta dico “è una pianta”, Di me stesso dico “sono io”.
E non dico nient’altro. Che altro c’è da dire?»

Non dev’essere stato semplice rendere cinematografica la profondità di un testo come Sentieri neri di Sylvain Tesson, libro tratto da una vicenda realmente accaduta all’autore da cui prende spunto A passo d’uomo, il nuovo film di Denis Imbert che nella versione originale rispetta il titolo di riferimento Sur les Chemins Noirs. Il rischio di inciampare sulla tentazione di una trasposizione fredda, meccanica e didascalica era forte, così come quello di restituire l’immagine di una Francia stereotipata e immobile, da cartolina, o quello di ammorbare con toni predicatori. Invece, scritta dallo stesso Imbert insieme a Diastème, la sceneggiatura ha la freschezza di quelle storie di formazione intrecciate alla riflessione spirituale, tese a rileggere il rapporto con il mondo e con la natura. Tutto sembra basarsi sulla forte convinzione che quella narrata non sia una vicenda di resilienza bensì il racconto di un tempo sospeso dentro il quale un uomo, animato da un dolore interiore non ancora risolto, affronta un viaggio decisivo per conoscersi meglio e fare i conti con la propria storia, ma anche per scoprire un paese sommerso e immutato. È un film sul senso e sulla riparazione, un road movie materico e corporeo, sui limiti e le contraddizioni che abitano l’uomo e soprattutto sul valore della promessa che, più ancora delle maestose manifestazioni epifaniche della natura, rappresenta il cuore cinematografico dell’intera operazione.

 

 

È la promessa che nel letto d’ospedale Sylvain – alias Pierre interpretato da un Dujardin capace di trasmettere il giusto equilibrio tra fascino e senso di colpa – fa a sé stesso: tornare a camminare sulle proprie gambe e attraversare tutta la Francia a piedi, dal parco del Mercantour, sulle Alpi italiane, fino alle falese del Nez de Jouburg, nel Cotentin, in Normandia, seguendo per circa 1300 chilometri i cosiddetti sentieri neri, quelli secondari, dimenticati, poco battuti. Strade nascoste che fanno aprire gli occhi su visioni sconosciute e invocano una delle più appassionanti dichiarazioni d’amore nei confronti della natura che viene ammirata e osservata da vicino, contemplata per essere raccontata come un personaggio che affianca il camminatore solitario, scrittore in cerca di una pace interiore, in cerca di un ordine e di una ragione per dare significato al male subito. Pierre è in fuga da sé stesso perché cerca una nuova immagine di sé, costruisce un’ideale solitudine ma non rifiuta le relazioni e la provocazione della condivisione.

 

 

Ogni tanto qualcuno lo accompagna per un po’ (la sorella, un amico), ogni tanto qualcuno gli offre amicizia e aiuto (una donna affascinante, la zia, un ragazzo che incontra), ogni tanto parla con i negozianti e le persone incontrate lungo il cammino, come l’anziano che gli offre ospitalità nella propria abitazione. È questa condizione sospesa tra solitudine e ricerca di equilibrio, restauro della memoria e proiezione verso il futuro, a inebriare Pierre e a lasciare il segno, più di ogni parola scritta. Sono elementi che costruiscono e nutrono il personaggio, incontri che lungo il cammino ne rivelano l’anima. Pierre si svela attraverso le persone che incontra e l’apertura di alcuni flashback che interrompono la linearità del racconto, dedicati alla relazione con Anna e al suo inquieto passato. Una carica melò che sovraccarica emotivamente un tessuto narrativo già saturo di tensione ma che non indebolisce un film capace di esaltare il silenzio come dimensione fondamentale per riconquistare la propria umanità e ristabilire una connessione autentica, e per nulla scontata, con il mondo.

Torna in mente il poeta quando canta: “Povero cuore/come uno straniero giro/la mia terra abbandonata/abbandonato e solo/e vado per la vita/a passo d’uomo/altra misura non conosco/altra parola non sono”.