Distopia in corpore vili: oltre l’androide, al di là del replicante, c’è la replica umana, la copia conforme in stampa 3D da matrice desossiribonucleica riproducibile all’infinito… Benvenuti su Niflheim, colonia terrestre governata da Hieronymous Marshall, un idiota egomaniacale della stessa risma di Elon Musk, che sta sullo schermo con le movenze pomposamente grottesche di un impagabile Mark Ruffalo. Siamo nel mondo di Mickey 17, il nuovo film che Bong Joon Ho ha tratto dal romanzo di Edward Ashton Mickey 7, e Robert Pattinson è il multieroe di questa distopia che percorre la stessa linea tematica di Snowpiercer, in cui la scala sociale segue una gradualità che si basa sul sacrificio. La spendibilità del corpo, del resto, nel cinema di Bong Joon Ho è quasi una costante semantica, che in Parasite diventa funzione metaforica incarnata nella sostituzione fisica e di ruolo, ma che è una sorta di ossessione trasparente delle sue opere, in cui è proprio il valore fisico socialmente sacrificabile degli individui a trasformarli in vittime, cavie di una mobilità sociale impossibile in cui si nasce vittime. In questo senso il Mickey Barnes di Robert Pattinson ha un che di eccezionale, perché è un poveraccio che accetta e sottoscrive di suo pugno la propria spendibilità, la sacrificabilità del proprio corpo, il destino di morte che lo aspetta prima di ogni rinascita: i suoi resti vengono dati in pasto alla fornace che poi nutre la stampante 3D che in poche ore riproduce un nuovo Mickey con numerazione progressiva. Quello che all’inizio del film sta per essere sbranato da uno degli insetti giganti che popolano le nevi infinite di Niflheim è il Mickey 17, appunto: diciassettesimo esemplare di quel ragazzo che al momento di arruolarsi nell’esercito coloniale di Hieronymous Marshall ha smarcato la casella “expendable” senza nemmeno capire bene cosa significasse… Ed eccolo destinato a orribili morti come cavia di laboratorio o in situazioni di estremo pericolo, rassegnato alla sofferenza tanto quanto all’idea di dover rinascere in laboratorio ed essere destinato a nuove sofferenze…
Bong Joon Ho divarica le coordinate della sua distopia con la consueta attenzione per le forme del grottesco, cercando nella rassegnazione un po’ stolida e tanto dolce di Mickey la funzione di una raffigurazione del destino umano in un mondo dominato dai dominatori. Come in tutti i suoi film, anche in Mickey 17 la stratificazione tra la superficie delle esistenze, incastrate nelle coordinate ricevute, e il sottobosco delle tensioni, delle attese, delle speranze, provoca la sostanza del dramma e rivela la verità dei personaggi. Qui, a rompere il ritmo del riciclaggio di Mickey Barnes non può che essere un atto di pietà nei suoi confronti, compiuto però non già da un uomo, ma da una delle forme di vita indigene, il capo degli insettoni che all’inizio sembrava dovesse divorare Mickey 17 e invece gli salva la vita e lo consegna al suo destino. Peccato che nel frattempo è già stato stampato Mickey 18, che ha tutt’altra indole del suo predecessore e innesca nella colonia un meccanismo di rivolta contro la crudeltà del despota, di cui saranno parte anche le creature del pianeta, radunate in una minacciosa invasione di proporzioni bibliche.