Season of The Devil: alla Berlinale 68 in concorso il musical tagalog di Lav Diaz

Non una nenia, ma un musical tagalog a cappella, in cui il flagello di dio ha il volto bifronte del potere che lambisce l’anima del popolo, seducendolo per violentarlo: è questo il linguaggio che parla Season of The Devil (“Ang Panahong ng Halimaw”, Concorso), la sedicente “rock opera” di Lav Diaz, tre ore e cinquantacinque minuti di musical senza musica (e come potevamo noi cantare…) per ricomporre il cadavere del popolo filippino schiacciato dal piede della dittatura del presidente Marcos. Dialoghi cantati a secco di musicalità, verseggiando il (melo)dramma di un paese soggiogato, all’alba del 1971, dalla presa di potere del dittatore. La scrittura filmica trattiene il bianco e nero di Lav Diaz e la dilatazione delle inquadrature in piani sequenza che slargano la coscienza emotiva della narrazione in una prolungata epifania della verità incarnata nel dolore: c’è il popolo da tenere sotto torchio e ci sono i miliziani armati dal dittatore che spadroneggiano nelle vene del paese, in quella provincia in cui la gente coltiva il culto delle tradizioni come linfa identitaria.

Lav Diaz pone subito sul tavolo la perfidia del potere che insinua il dubbio, la doppiezza della paura e della salvezza offerta in cambio della libertà: i miliziani decidono di fare leva proprio sulle tradizioni (la strega dalle sembianze del gufo, il tikbalang metà uomo metà cavallo) per innestare nel cuore del popolo la paura necessaria a controllarlo e impongono il potere del dittatore, ammazzando inermi contadini con l’accusa di essere ribelli e trafficanti di droga. Dal lato opposto il regista costruisce il suo empireo di figure della libertà perduta, di cantori dello spirito della nazione tagalog che germoglia nell’ombra dei villaggi, nello stretto dei vicoli e nel buio delle case: c’è il poeta del popolo, Hugo Haniway, che infrange la sua coscienza nel dolore per la scomparsa nelle mani dei miliziani della sua amata Lucrezia, un medico, andata in missione nella giungla; c’è il capo villaggio che cerca di opporsi al potere dei soldati; ci sono le madri che aspettato alla finestra il ritorno di figli spariti nelle spire dell’oppressione…
Il film procede per quadri, col classico movimento da mystery play laico impresso da Lav Diaz ai suoi lavori, trovando però sempre una risonanza nella configurazione cristologica e messianica dei suoi eroi popolari, senza che questo produca lacrime evangeliche, ma insistendo piuttosto sulla rabbia sobria e sorda di una lotta popolare che non aspetta avventi trascendenti ma azioni immanenti. Il bianco e nero digitale produce impulsi chiaroscurali opacizzati in questo musical scolpito nei versi delle canzoni scritte dallo stesso regista, in cui il fraseggiare impositivo del potere dialoga con la dizione ferma della libertà: non c’è musica a sostegno di queste canzoni cantate come salmi pop, lasciando che la reiterazione trina delle strofe conduca il gioco del potere. Il dittatore, che appare qua e là, non necessità nemmeno di parole, rappresentato da Lav Diaz come una figura che sbraita lallazioni rabbiose, col volto di Marcos e, sulla nuca, quello dello “spietato ragazzino grasso con un buffo taglio di capelli” (come dice il regista stesso) che spadroneggia sul popolo nordcoreano.

Doveva essere un film noir, quello che Diaz stava scrivendo a Cambridge, alla residenza dell’Harvard Redcliffe Institute, prima di rendersi conto che i tempi bui dei dittatori, dei populismi e delle repressioni stanno tragicamente tornando e di decidere che quel film noir sarebbe stato in realtà un’opera rock sulle dittature, raccontata sulla pelle della storia del popolo filippino. Il risultato è Season of The Devil, che non è di sicuro all’altezza dei suoi ultimi film, non ha la potenza identitaria catartica e rifondativa delle otto ore di Lullaby to the Sorrowful Mystery né la limpidezza emotiva di The Woman Who Left, ma mantiene una sua urgenza interiore che merita la più alta considerazione. Mancano al film la misura e il ritmo, non risulta del tutto riuscita la scelta di comporre un “musical” su vocalizzi tagalog a cappella che non sempre reggono la drammaturgia, c’è un distacco che disperde l’empatia visuale del gesto filmico in una progettualità autoriale un po’ prevedibile. Ma resta la forza istintuale di un cinema che ha radici profonde e ragioni autentiche, di fronte al quale non si può restare indifferenti. Resta soprattutto la parte finale, che si prostra nel dolore sacrificale del poeta sulla tomba della sua amata, lasciato a morire nella sua sofferenza spirituale dai soldati, figura potente e lirica che espone il film alla sua idealità e lo incarna nella Storia del popolo filippino. Resta l’immagine del bambino (mostrata all’inizio e alla fine) che gioca coi fogli del poeta sparsi per la stanza e piegati a forma di aereo di carta, verseggiare militante e aereo che libera le parole e prospetta traiettorie di libertà spirituale da spingere nel cielo. Magari anche per combattere in suo onore…