Ghostface in Paramount Pictures and Spyglass Media Group's "Scream." Courtesy of Paramount Pictures

Solo per gioco: Scream, di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

L’uscita di un nuovo Scream a 26 anni di distanza dal capostipite craveniano, rappresenta innanzitutto l’occasione per mettere finalmente in prospettiva storica la saga e analizzarne così il lascito. Nato come il più classico dei progetti destinati a girare a lungo tra le scrivanie dei produttori senza raggiungere un immediato sbocco, Scream aveva infatti trovato nel regista di Nightmare l’unico autore capace di comprenderne il potenziale, dopo i rifiuti di colleghi altrettanto illustri come George Romero o John Carpenter. Più di tutti Craven aveva infatti inteso come l’idea di un meta-horror potesse unire in sé un’anima al contempo popolare e sofisticata. Poteva cioè coinvolgere gli appassionati nel “gioco” del riconoscimento o sovvertimento dei cliché, ma anche riflettere (e irridere) i cosiddetti meccanismi “emulativi” tra cinema e realtà. Tema, quest’ultimo, da sempre caro all’autore americano, che nel genere vedeva prospettive filosofiche e di capacità di lettura dei malesseri sociali, in opposizione alle più facili ipotesi sensazionalistiche secondo cui gli horror fossero meri strumenti per “traviare” i più giovani. Di qui l’idea di un killer che “emula” il cinema cercando in esso il capro espiatorio di una violenza che negli stessi anni si esprimeva attraverso drammatici e reali fatti di cronaca, come la sparatoria di North Hollywood del 1997 o, ancor più, la strage nel liceo di Columbine del 1999 (che coinvolgeva proprio degli adolescenti).

 

 

La problematicità craveniana, abilmente mascherata da semplice prodotto di genere, spiega abbastanza facilmente come il primo Scream resti un prototipo perfettamente bilanciato e non immediatamente replicabile, tanto che i successivi sequel, pur ampliando il gioco dei riferimenti e chiamando in causa sequel, trilogie e revival, hanno sempre offerto il fianco a un retrogusto amaro da prolungamento non necessario. Tutto questo mentre il mercato si affrettava a emularne il successo attraverso una riproposizione abbastanza sterile di slasher tradizionali (i vari Valentine, So cosa hai fatto, Urban Legend…) o addirittura gli spoof alla Scary Movie, utili a dimostrare come del film craveniano si fosse compresa soltanto la natura popolare di “gioco”. Il discorso si innesta perfettamente anche in questo nuovo capitolo, affidato alla coppia di registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, che con il precedente Finché morte non ci separi, avevano già dimostrato una certa dimestichezza nell’uso dei cliché. L’idea di base è quella del requel, ovvero del remake mascherato da sequel che rifletta e ironizzi l’autocannibalismo della Hollywood recente, in cui la tendenza allo sfruttamento commerciale dei franchise trova sponda nel tradizionalismo granitico degli appassionati, che vogliono ritrovare le loro storie preferite, ma senza accettarne una possibile evoluzione. Un progetto insomma “congelato” in un non tempo dove i ricorsi storici mascherino la sostanziale riproposizione coatta di idee già sedimentate, che alimentino il conforto del noto, in barba a qualsiasi ipotesi di originalità. Ecco quindi un nuovo serial killer mascherato colpire a Woodsboro, “emulando” il precursore di 26 anni prima e accanendosi contro chiunque sia in qualche modo collegato a chi era coinvolto nei fatti. Nuovi e vecchi protagonisti si ritrovano così affiancati nel giallo che li porterà a scoprire il killer sugli stessi scenari cittadini a noi familiari.

 

 

La materia, non lo si nega, ha un suo motivo d’interesse, ma già in nuce evidenzia come la saga non possa (più) permettersi alcuna problematicità esterna alla cerchia della riflessione sul linguaggio di genere. La realtà è insomma esclusa – e risulta in tal senso interessante l’impotenza della storica reporter Gale Weathers, congelata nella maschera deformata di un’ormai irriconoscibile Courtney Cox, simbolo di quei media che possono rappresentare proprio una cerniera fra il mondo di “dentro” e quello “di fuori” e che qui risultano frettolosamente esclusi dal meccanismo. Inutile quindi pretendere che il nuovo Scream possa sfoggiare, ad esempio, l’intelligenza amabile ma corrosiva di un Christopher Landon, che negli eccellenti Auguri per la tua morte e, soprattutto, Freaky, riesce a reiterare sia il gioco dei cliché che la riflessione sul ruolo della donna o delle politiche di genere in una società e un cinema contemporanei che vanno ridefinendo i loro parametri di inclusività. O anche l’audacia con cui David Gordon Green sta traghettando la saga di Halloween verso una brutale riflessione sulle divisioni nell’America contemporanea. Ciò che ormai conta è solo lo spettacolo e in questo senso Scream 2022 compie con diligenza il suo dovere, parlando ad appassionati contenti di ritrovare quanto già conoscono, anche se magari nel frattempo il film li prende un po’ in giro. Una nota in più all’ormai lunga sequela di ritorni e ricorsi storici che affollano le sale in questi mesi, da Ghostbusters Legacy a Matrix Resurrections, insomma. Quindi, sì, il meccanismo slasher si segue con un certo piacere d’antan, ma fa una certa impressione notare quanto Scream (il primo) fosse stato capace di torcere un semplice gioco in una riflessione più profonda sul mondo, capace perciò di portare un progetto sterile nella contemporaneità del suo presente, mentre in Scream (l’ultimo) tutto deve ridursi a una semplice finestra da cui guardare il passato. Anche per questo Craven era e resta un Maestro, lui sì, non replicabile.