Specchiarsi nell’horror: The Conjuring – Per ordine del diavolo, di Michael Chaves

I coniugi Ed e Lorraine Warren sono impegnati in un esorcismo, sotto l’occhio attento di una videocamera manovrata da un loro collaboratore. A un tratto il demone scatena i suoi poteri e, nel trambusto generale, la macchina cade di fronte al monitor, sul quale si produce una vertiginosa mise en abyme. È un momento fugace ma significativo, all’interno di un incipit-compendio dell’intero Conjuring-pensiero. Mentre va in scena il consueto spettacolo di un horror parossistico e pieno di effetti, sul pretesto fornito da una “storia vera” nella classica casa isolata, il film inizia infatti a ragionare sulla sua natura derivativa e sul suo rimescolamento/superamento. I successivi passaggi non fanno che confermare come The Conjuring – Per ordine del diavolo sia quindi un prodotto classico nei rimandi, sebbene aggiornato nella forma. Non tanto e non solo per l’ambientazione d’epoca nel New England americano, ottimamente restituita dalle tinte color terra della fotografia di Michael Burgess, quanto per l’intricato sistema di riferimenti che guarda ai classici del genere, da L’esorcista (richiamato in apertura da una sfacciata citazione) a Nightmare (il letto ad acqua, come nel quarto capitolo), fino al cinema di Mario Bava, nel momento in cui Lorraine vede un suo doppio, come Giacomo Rossi Stuart in Operazione paura, in uno dei tanti rimandi “a specchio” di cui è piena la storia.

 

 

Sebbene tutta questa pratica possa considerarsi un ozioso esercizio del regista Michael Chaves (già artefice del quasi spin-off La Llorona – Le lacrime del male), in realtà aiuta a circoscrivere il perimetro classico all’interno del quale articolare la vicenda, che, a conti fatti, è una caratteristica storia da “mostro sotto il letto” (figura retorica ritornante all’interno della narrazione). Al contempo, però, questo racconto così tipico è anche il suo doppio “liberato”, infarcito com’è da false piste, un colpevole che in realtà non agisce sua sponte, ma per effetto di manovre eterodirette, maledizioni che passano da uno all’altro, dove i confini del Bene e del Male si rispecchiano e capovolgono. Soprattutto, però, il terzo Conjuring è un capitolo che finisce pure per infrangere alcune regole tipiche della saga. Per la prima volta, infatti, la storia esce dal classico alveo della casa maledetta, facendo muovere i Warren lungo strade e aree degli Stati Uniti, fa loro intrecciare più vicende, mentre mantiene salda la forza del loro legame. Dei tre capitoli finora prodotti, Per ordine del diavolo è in effetti quello più “aereo”, ma allo stesso tempo intimo, incentrato com’è sulla forza degli affetti: quello fra Ed e Lorraine, ovviamente, ma anche l’altro fra Arne e la compagna Debbie, che si stagliano come elemento qualitativo in grado di fare la differenza all’interno di una fitta rete di connessioni che riflettono la schematicità del Male, ancorato alla solitudine umana e a amuleti e rituali ben definiti – senza considerare che, in fondo, anche la risoluzione del “caso” è essa stessa ancorata a un legame “negativo”.

 

 

In questo modo, il già citato prologo-compendio si “specchia” e ribalta nel prosieguo di una storia puntellata da rimandi alla tradizione, che permettono alla narrazione di mantenere una sua coerenza, mentre i personaggi si muovono in un’ampia serie di direzioni, in un balletto di posizioni che contrappone la staticità della “formula” alla vitalità del narrare. L’effetto è coinvolgente nella misura in cui non lascia lo spettatore orfano di visioni e di tutto il bric-à-brac tipico del genere (si noti però come manchi un vero e proprio mostro-simbolo) e riesce a tenere desta l’attenzione grazie a un “viaggio” articolato che è più di una semplice detection, e ancor meno quel legal thriller che a un certo punto sembra prendere forma, restando invece confinato sullo sfondo. Un interessante caso, insomma, in cui la pienezza degli spunti è gioiosamente “dissipata” da una narrazione divertita da tutte le sue potenziali connessioni. Una formula che onora il senso di “universo” filmico in quanto ricettacolo di possibilità, stili e generi, più che pedissequa genuflessione all’ormai insopportabile continuity, qui praticamente assente (tanto che il film può essere visto anche senza conoscere i due precedenti).