È la sera del 31 marzo 1943, siamo da Sardi’s, il bar di New York che è il ritrovo obbligato della gente di Broadway, soprattutto se si deve festeggiare una première di successo. L’unità di luogo e di tempo è di matrice teatrale, ma essendo Blue Moon un film di Richard Linklater è anche l’elemento più spiazzante dell’operazione, perché gestisce in chiave occlusiva quella variabile temporale a lungo termine che il regista della Before Trilogy e di Boyhood conosce molto bene. Questa del resto è un’opera sulla fine del tempo, scritta in chiave terminale non tanto perché inizia sostanzialmente con la morte del suo protagonista, Lorenz Hart, quanto perché è concepito proprio come la posa in opera di uno script (di Robert Kaplow, quello di Me and Orson Welles altro film sulla relazione creativa a due) e quindi lavora sul senso della scrittura che ordina il dire, il fare, il fatto e il non fatto, anche il non detto… Blue Moon è la celebrazione di un tempo concluso, di una progressione giunta alla sua fine, ma non in chiave nostalgica: la nostalgia, che nel cinema di Richard Linklater è il prodotto molto concreto di un processo creativo che coincide con la scansione biografica del tempo della messa in scena, in Blue Moon è un po’ lo specchio in cui si riflette lo spirito vago e vagheggiante del protagonista. Se proprio si dovesse ragionare sulla durata del tempo in Blue Moon, andrebbe detto che sta piuttosto nell’attesa che il progetto ha dovuto pazientare per far sì che Ethan Hawke potesse interpretare l’anziano protagonista in maniera credibile.
Lo script offerto a Linklater da Robert Kaplow parlava di un Lorenz Hart nella fase declinante della sua vita. Hart è stato l’autore dei testi di alcuni dei più amati standard della storia di Broadway, a partire da quel Blue Moon you saw me standing alone scritto nel 1934 assieme a Richard Rodgers in quel lungo e prezioso sodalizio artistico che proprio il 31 marzo 1943 celebrava la sua fine. Quella sera immortalata nel film Rodgers aveva appena esordito con Oklahoma!, il primo musical scritto senza i testi di Hart, e l’appuntamento per festeggiare il successo è proprio da Sardi’s, dove Hart s’è fiondato prima della fine dello spettacolo, mal sopportandone la qualità a suo dire scarsa… Dietro il bancone c’è Eddie, barman che Linklater ha affidato a Bobby Cannavale, classica figura di contenimento a arginare il proliferare dialogico da alcol mischiato a egocentrismo del Lorenz Hart di Ethan Hawke: minuto, infragilito, con riporto da calvizie sulla fronte, più basso di ogni personaggio in scena, compresa la Elizabeth di Margaret Qualley che incarna la misteriosa figura femminile con la quale nella realtà Hart intrattenne una relazione epistolare e, probabilmente, un amore platonico…Richard Linklater instilla nello spazio concentrico di Sardi’s tutta la tensione narrativa di cui sa essere capace, costruendo un oggetto plasticamente teatrale per celebrare la teatralità intrinseca a una figura che ha vissuto nella posa artistica del suo successo. Blue Moon è un oggetto in sé concluso, dal quale emergono articolazioni pulsionali legate alla materialità del tempo, alla logica intrinseca al divenire delle persone, degli eventi, al mutare a vista delle relazioni. Il ritmo della messa in scena è scaltro e preciso e il film resta come la prova della capacità di Richard Linklater di elaborare una visione pulsionale e sensibile delle relazioni. Ethan Hawke è preciso, limpido e dolce nella resa di una fragilità che non lascia scampo al bisogno del protagonista di essere amato.