Su Netflix la messa in scena barocca di La donna alla finestra di Joe Wright

Anna Fox è una psicologa infantile barricata in casa a causa di una grave forma di agorafobia. È il mondo esterno, quindi, ad affacciarsi da lei: le telefonate con il marito e la figlioletta, il terapista che fa visita per le sedute, l’affittuario del piano inferiore (che entra ed esce come un ladro), i membri della famiglia che si è appena trasferita nella casa di fronte che, a turno, bussano alla sua porta. Anna quindi si è chiusa dentro, ma il fuori la assedia. Le sue giornate trascorrono uguali, scandite dall’ansia e da qualche tremolio, annaffiate di alcol e concimate di psicofarmaci, con sullo sfondo i grandi classici del cinema – Hitchcock, Preminger, Delmer Daves a riflettere, come in uno specchio, i toni noir che pervadono la vita della protagonista – che Anna recita a memoria. I nuovi vicini sembrano riportare in lei una vitalità perduta, una scossa dal torpore: prima l’adolescente inquieto che cerca confidenza e protezione, poi la bionda signora che ispira complicità e risate, poi l’uomo inquietante che trasuda minaccia. Archetipi che entrano e abitano la testa di Anna fino a quando non assisterà – ma assisterà davvero? – al brutale omicidio della nuova presunta amica, testimoniato dallo zoom della macchina fotografica che scruta, dalla finestra, non un cortile ma una casa altra, che per Anna è il mondo, e quello che diventa presto l’unico oggetto della sua osservazione. Ovviamente, nulla è come sembra: le donne si sdoppiano, le indagini si sgretolano, le vittime scompaiono, i carnefici sono ipotizzati. E in questo puzzle che non riesce a risolvere, Anna ricompone invece il proprio, di trauma, quello che la chiude in casa (e nella sua testa) e che la rende incapace di decifrare – accettare, riconoscere – la realtà.

 

 

Joe Wright, nel portare sullo schermo il romanzo La donna alla finestra di A.J. Finn, si affida a un’idea barocca di messa in scena che si basa sulla centralità quasi ontologica dell’indagine. I colpi di scena sono numerosi, e neanche sempre riusciti, ma giudicare La donna alla finestra come un semplice thriller sarebbe ingeneroso. L’operazione psicanalitica consiste in una ricostruzione parziale di una percezione, nell’autosvelamento di una realtà altrimenti inaccettabile e inaffidabile. Le immagini, vissute fino in fondo come lente di sguardo, come superfici riflettenti e pensanti, costruiscono la narrazione e, di rimando, la realtà. Noi osserviamo quello che Anna osserva, e lo facciamo attraverso i suoi occhi, o osserviamo Anna che osserva, e lo facciamo guardando i suoi occhi. La donna alla finestra non è la sua narrazione, la risoluzione di un whodunit, la scoperta di un cadavere o di un assassino, è piuttosto la ricerca concretissima di un disagio psichiatrico che si fa immagine, oggetto, prende forma. E Wright lo fa accadere davanti ai nostri occhi, in tempo reale, scartando e sbandando, ma con una forza solida, che non ammette sottotesti perché i sottotesti diventano testo, si esplicitano e diventano tangibili, concreti, visibili. Amy Adams ben incarna questa incredulità ripetutamente messa sotto scacco e dona ad Anna una fragilità fatta di piccoli tremiti, di sgomenti repressi, di singhiozzi trattenuti.

 

 

Anna, piano, ricostruisce il proprio racconto, svela il suo trauma, impara a guardare – anche attraverso quei film che sa a memoria (e che qui non hanno il sapore dell’ostentazione cinefila) – e guardando, dentro e fuori di sé, forse ritornerà a vivere. Ovviamente, in tempi di pandemia, La donna alla finestra assume anche uno spiazzante significato metaforico, con lo sgretolamento psichico che accompagna l’autoreclusione e la realtà che si sbriciola oltre le nostre finestre. Ma il cuore pulsante del film è la messa in scena di un dentro simbolico – la grande casa, spaziosa e claustrofobica al tempo stesso, fotografata in toni antinaturalistici da Bruno Delbonnel – contrapposto a un esterno inconoscibile e ambiguo; è la ricomposizione di una frattura che si ottiene rivedendo un’immagine, riaggiustandone il senso, decodificando il dolore. La donna alla finestra intraprende un percorso accidentato, non privo di ostacoli o sbavature, ma sceglie di mostrare, con disarmante onestà, quello che di solito si cela, si omette, si affida alla parola. E, questa, con tutti i suoi eccessi e i suoi difetti, è una riappropriazione della funzione primaria del cinema: un gioco di luci e ombre che svela, a chi sa guardare, l’anima del mondo.