Cinque stanze di Bruno Bigoni: guardare negli occhi il dolore

 

Chi dunque ha creato questo labirinto di esitazioni,

questo tempo di presunzioni, questo campo seminato di mille inganni,

questa porta dell’inferno, questo paniere traboccante di astuzie,

questo veleno che ha il sapore del miele, questo legame che incatena i morti alla terra?

Nikos Kazantzakis

 

Non la nostalgia, piuttosto il rimorso. Non il ricordo, piuttosto la colpa. Frammenti spezzati, vuoti da colmare, l’ossessione per la morte, la ricerca della verità, una domanda. È dentro queste maglie che prende forma il viaggio introspettivo di K., un uomo ormai anziano, travolto dallo scorrere del tempo e perseguitato dai propri fantasmi, costretto a fare i conti con le proprie fetenzie, il finire dell’esistenza, l’accidia, la pigrizia, l’incapacità, la vigliaccheria. Un uomo senza qualità che rivela tutta la sua profonda fragilità contornata di rabbia, ritorni alla memoria, chiusure ermetiche e sorde di un dolore inesprimibile e lancinante. Cinque stanze (presentato Fuori Concorso nella sezione Fedeli alla linea al 40° Torino Film Festival) è la rappresentazione del suo travaglio interiore: stanze che convocano un tempo percepito ma non vissuto ma pure un’esperienza sensoriale che rimanda ad un senso universale da interpretare e che sfugge. Un flusso di coscienza immersivo messo in scena da Bruno Bigoni per manifestare non l’invisibilità dell’essere ma la sua consistenza visibile e, appunto, tangibile, materica, afferrabile. Non eterna. Al personaggio di K. sono legate le figure di Lara e Silvia, donne affascinanti ma perdute, svuotate, sole, voci che restituiscono vitalità a corpi spenti, espressione di una tensione che rivela l’assenza di chi cammina nel buio senza più una luce come guida.

 

 

In questa drammatica polifonia che non manca di mostrare limiti e contraddizioni, Bigoni conduce lo spettatore di fronte alla domanda di senso di K. restituendo la difforme sagoma di un mondo costituito da poche luci e molte ombre, privo di un ordine e di un baricentro, razionale e geometrico ma pure squilibrato e disorganico, come da lui stesso dichiarato: «In Cinque stanze cerco una forma “musicale” fatta di tensioni e di corrispondenze che si sviluppano nel tempo. Una certa circolarità senza un apparente baricentro, senza un vero protagonista, con tanti punti di vista sullo stesso accadimento. Cerco di dire agli spettatori che nella vita tutto è confuso, che è giusto avere punti di vista diversi su ciò che ci accade. Cerco di far uscire da ogni stanza raccontata un vissuto che sovente genera conclusioni contraddittorie, proprio come nella realtà di tutti i giorni. Cinque stanze non è un film sul dolore ma sulla caduta, sulla difficoltà di alzarsi». Non sempre lo sguardo nei confronti dei suoi personaggi appare amorevole, come vorrebbe essere. E non sempre l’impianto teatrale, la forma stringente, l’ossessiva presenza della parola che tutto conosce, regola, pianifica, giudica, riescono ad integrarsi efficacemente, come da intenzione, restituendo soltanto in parte quel senso di desolazione e tenerezza che Bigoni insegue con determinazione, analogamente ai suoi stessi personaggi di fronte ad una fiamma da riaccendere che tutti considerano spenta.