TFF41– La maternità come malattia dell’anima in Birth di Jiyoung Yoo

Il cinema coreano, ancora una volta, si distingue per due elementi che ricorrono con una certa frequenza. Da una parte una complessità nella elaborazione della vicenda con inattesi detour, che non solo sono narrativi ma appartengono al profondo e più radicale senso generale dell’opera, dall’altra una qualità compositiva dell’immagine che resta il marchio di fabbrica di questi autori, di cui, purtroppo, spesso dopo i festival si perdono le tracce con un grave danno alla conoscenza delle loro opere. Birth della coreana Jiyoung Yoo, in Concorso al TFF41, fa parte di questa categoria e possedendo entrambe le caratteristiche di cui si è detto, sa farsi ricordare come opera di rilievo nella selezione del Concorso e sarebbe opportuno che qualcuno si accorgesse di questo film per una distribuzione nel circuito italiano guardando alla sua qualità complessiva e la sua originalità nel trattare il tema della maternità, incrociato e confliggente con i desideri personali della futura madre e con le ansie del futuro padre. I protagonisti del film sono Jay che con un successo crescente fa la scrittrice, e Gun-woo, insegnante in una scuola privata che con capacità riconosciute e una buona dose di ambizione viene promosso a direttore della succursale dell’istituto. La loro esistenza felice viene interrotta dalla inattesa gravidanza di Jay. La coppia, che aveva fatto di tutto per evitare un figlio, si trova a dovere gestire questo evento. Jay rifiuta la gravidanza che vede come un ostacolo alla propria carriera. Gun-woo prova ad assecondare la moglie, ma il loro rapporto entra in crisi e la loro vicenda familiare avrà risvolti inattesi.

 

 

Birth, nella variegata produzione asiatica, sempre molto attenta ai temi familiari, con una spiccata attenzione a quello del rapporto madri/padri/figli – a proposito basta scorrere la produzione del giapponese Kore-eda –contribuisce al tema con una sua originalità, quella stessa originalità di Naomi Kawase in True mothers che per molti versi, se si vuole anche antitetici, nonostante tutto possiede molte affinità con quelli che si ritrovano in questo film. È nello sviluppo delle dinamiche della coppia, nel loro crescendo verso la direzione di una progressiva distruzione e decostruzione di ogni legame, che Jiyoung Yoo lavora con attenzione quasi entomologica, in quel crescente, ma inesorabile, disfarsi dell’amore che il film pianifica il suo sviluppo mostrando il prodursi dell’antagonismo tra i due protagonisti. È dapprima Jay la protagonista di questa lenta discesa verso un inferno quotidiano, con i suoi malesseri che si manifestano nell’insofferenza verso la sua condizione di moglie in attesa di un bambino e di scrittrice impedita da questa inattesa gravidanza a dare corso alle sue ambizioni. Il paziente Gun-woo asseconda le smanie della moglie e sopporta con difficoltà il suo incipiente alcolismo, ma l’impossibilità di un aborto, insistentemente ricercato da Jiyoung Yoo, costituirà il punto di rottura di ogni difficile equilibrio. Da qui in poi l’attenzione della regia si rivolge a Gun-woo seguendo la sua vita stravolta da questa vicenda familiare e fino ad un epilogo che del tutto inatteso, tradito sul posto di lavoro dal suo direttore che non manterrà la parola data. Film dunque adatto ad una terapia di coppia? Può darsi, ma sicuramente Birth getta una luce assai livida sui temi che incrociano le ambizioni personali con la nuova possibile condizione della genitorialità ostacolo alla propria affermazione.

 

 

È per queste ragioni che Birth sa indagare con profondità in questo rapporto malato e difficile, in questa coppia dove lo squilibrio tra i desideri porta alla frantumazione di ogni legame e di ogni progetto futuro. Ed è per le stesse ragioni che il film della regista coreana coglie quel profilo orrorifico del rapporto che si sviluppa insieme al crescere del feto nel ventre materno. Un che di demoniaco appartiene a questa concezione dello sguardo, un che di irresolubile e di predestinazione. Il cinema ha più e più volte affrontato il tema della procreazione in termini di oscuri presagi, di insinuante demone nel rapporto di coppia, Birth lo fa con una sua grazia, quella stessa aspirazione verso la perfezione compositiva che di suo appartiene ad ogni sguardo sulle cose che tragga origine dalla cultura dell’Asia estrema. Una concezione compositiva che si riflette nella linearità della storia, nella leggibilità immediata della vicenda e nel leggero brivido che comunque lascia sempre l’idea di perfezione quasi museale dentro la quale anche Jiyoung Yoo realizza il suo film con il suo sguardo trasversale dentro la decostruzione di questo rapporto amoroso, che si frantuma proprio nel momento che, secondo una opinione diffusa, dovrebbe costituire, invece, l’apice della comunione delle due anime. Non è da tutti sapere con grazia orientale e tenacia femminile, con la consapevolezza e il coraggio di portare un pensiero differente dentro la retorica familiare, realizzare un film del genere, sostituendo al consueto quotidiano femminile l’inconsueto rifiuto di un figlio che sembra fare orrore al solo pensiero. Ma Birth,che sa trasformare la gravidanza in malattia dell’anima e la prospettiva della maternità nella paura dell’annullamento di ogni propria affermazione, questo coraggio (femminile) lo possiede pur uscendo da questo festival quasi a mani vuote (così come incredibilmente accaduto per il russo Grace), nonostante il suo spessore autoriale, se non con un premio collaterale che solo in parte può soddisfare le attese.