The Nice Guys e i cani di Pavlov

27Per una intera generazione (abbondante) di spettatori, la storia del cinema inizia quando va bene da Pulp Fiction, quando va meglio da Blade Runner e quando va alla grande da Guerre stellari. Sono i nipoti del postmoderno, che iniziò più o meno nell’era LucaSpielberg, e i figli del post-postmoderno e della citazione alto-basso-pop non più implicita ma esibita, non più incastonata a effetto ma giustapposta in serie senza soluzione di continuità o di gerarchia del buon gusto né timore reverenziale, da QT a scendere. A voler essere anche un po’ presuntuosi, il discorso vale anche per una generazione e mezza di critici cinematografici, quella che riesce a riconoscere Mario Bava in Crimson Peak di Guillermo Del Toro, ma poi non vede Gli ultimi fuochi di Kazan nella sequenza di Loro chi? In cui Edoardo Leo abbindola definitivamente Antonio Catania facendo una pausa cruciale di affabulazione. Per esempio. Per una intera generazione di registi e sceneggiatori, questo pubblico e questi critici sono IL bacino d’utenza di riferimento: e film come The Nice Guys sembrano venire pensati e realizzati apposta per alimentare questo circuito chiuso. Shane Black ha al suo attivo come regista solo tre film, compreso quest’ultimo: gli altri sono il neo-noir black comedy crime movie (perdonatemi ma non potevo non citare l’esatta definizione che ne dà la versione Usa di Wikipedia) Kiss Kiss Bang Bang (2005), che fece rizzare i capelli in testa sin dal titolo ai fan di Duccio Tessari, e l’inguardabile Iron Man 3, ovvero il film che ha sancito la definitiva disneyzzazione del canone Marvel, quello con Tony Stark che nella mezz’ora centrale doveva interagire con un cinno scassacazzi armato di una potato gun  a uso del pubblico dei bimbi a cui vendere i pigiami e gli switcheroo del vendicatore dorato. Non un gran curriculum, anche se è come sceneggiatore (i primi due capitoli di Arma Letale, Last Action Hero – L’ultimo grande eroe e soprattutto L’ultimo boyscout) che il nostro si è conquistato una rispettabilità nel midcult 2.0. Che poi dietro quei film ci fossero un capitano di lungo corso come Richard Donner, un abilissimo mestierante con idee poi persosi nel nulla come John McTiernan e soprattutto il sottovalutato Tony Scott, per anni bollato dagli stessi fan di Black e dai neodifensori di mezze tacche come NWR come il minus habens di casa Scott  [cosa ovviamente non vera: tant’è che dalla fine degli  anni Ottanta sono stati assai meno i  film azzeccati di Ridley dei film sbagliati di Tony e che comunque chi aveva l’occhio avanti si era già accorto da The Hunger (mi tocca anche scrivere il suo titolo italiano idiota: Miriam si sveglia a mezzanotte) che dentro a quel film si muoveva ben più che qualcosa]. Ma vabbè. Tanto è bastato comunque a iscrivere Black nello strano novero di quei nessuno da cui ci si aspetta qualcosa. È anche questo un segno dei tempi.

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The Nice Guys è uno di quei film per cui ti immagini non tanto il lavoro del cinema che sta dentro alle immagini che vedi, quanto la perizia da tagliatore di eroina col bilancino che sta dietro a ogni inquadratura, ogni battuta, ogni gag, ogni digressione, ogni squarcio di surreale, ogni decisione. La coppia di divi che mai ti saresti immaginato di vedere interagire? Ce l’abbiamo. Il soggetto sbrisolone che ci lascia liberi di frammentare la linea narrativa senza che la tensione complessiva ne risenta? Ce l’abbiamo. La ragazzina tredicenne per sbassare un pelo il target ed épater un paio di fessi mettendole in bocca battute su pratiche anal? C’è. La quota demenziale? Fatto. Dei grumetti splatter ma neanche tanto che ci ridiamo su? Sì, dai. Tre minuti per la visione casalinga da fame chimica con l’allucinazione dell’ape gigante che si materializza su un colpo di sonno in auto? Mettiamoceli. La trovatona che tutti si ricorderanno per l’eternità (l’agnizione di Richard Nixon in veste di psicopompo)? Eccola. L’ambientazione per far giocare costumisti e scenografi (gli anni Settanta, col carico di strozzo dell’ambiente del porno nella  Johnny Wadd Age anche se otto secondi qualsiasi di Boogie Nights valgono qualsiasi possibile sequenza d’azione monstre di questa roba)? Presente. La VECCHIA star (per i signori di cui sopra Kim Basinger non è più neanche una MILF) che così giochiamo a citazione/autocitazione con L.A. Confidential? Presa. E via discorrendo. (Taccio del tema “politico” perché poi pensate che sono scemo e ci casco. E lascio per una volta al buon tempo di chi non ha visto il film andarsi a cercare i canonici, normativi accenni all’intreccio su una qualsiasi delle recensioni online da settemila battute di cui tremila di trama). E. Per carità. Si può sorridere. Ma che cinema è un cinema che visibilmente non lascia alcun margine allo spettatore al punto da costringerlo non tanto a sorridere per quello che accade o viene detto ma per ciò che presiede o ha presieduto a ciò che si è visto e sentito? C’è una sequenza emblematica a neanche metà film: quella di Ryan Gosling sul water che cerca di celare a Russell Crowe le sue parti intime con un giornale mentre 54aprechiude la porta del cesso. Fa ridere?  Farebbe ridere. Se non si vedessero dietro le due ore di prova e i cinquanta ciak prima che venisse così. [Si obietterà che anche Kubrick ha fatto rifare a Nicholson 224 volte una scena perché fosse perfettamente snervato per dire “buona”. Ma è un altro discorso]. E tutto il film è così. Tutto volontaristico. Tutto scartavetrato. Tutto post-post-postmoderno, quasiasi cosa ciò voglia dire anche se non è detto che voglia dire qualcosa né che quello che vuol dire sia bello o importante. Lo si guarda con la partecipazione con cui si guarda una spigola in un acquario davanti a un vetro di sei centimetri. Un cinema leggero senza questi margini, non è leggero per niente. Un cinema in cui (a differenza che in una macchina a volte aleatoria proprio come Arma letale e soprattutto Arma letale 2) l’interplay divistico è visibilmente solo contrattuale, non è entertainment per niente. Un cinema così è un cinema per cani di Pavlov. Si accende la luce rossa, ridi. Si accende la luce verde: fai “ooooh”. Si accende quella azzurra: pensa intensamente a quanto era geniale questa gag. Ti strizzo l’occhio: strizzamelo anche tu. Eccetera. E la cosa che alla fine fa più ridere sono i buontemponi coi foruncoli che si alzano dicendo “capolavoro”. Una parola che come tutte le parole ripetute troppo spesso finisce per svuotarsi di significato e apparire solo un buffo fonema. Provate a dire “Nice Guys” anche solo tre volte di fila e capirete da soli.