Torino 38 – Sin señas particulares di Fernanda Valadez e le soglie del male

Film di assenze e attese, incubi e ombre, sangue e polvere, il primo lungometraggio di Fernanda Valadez racconta la storia di Magdalena, anziana donna che non ha più notizie del figlio da quando, mesi prima, ha lasciato il Messico per andare negli Stati Uniti. Le autorità spingono perché Magdalena firmi un certificato di morte, ma l’incontro con un genitore in lutto spinge la donna a intraprendere un lungo viaggio per capire quale sia stato il destino del figlio. Presentato al Sundance Film Festival, dove ha vinto il premio del pubblico e il premio speciale della giuria per la miglior sceneggiatura, Sin señas particulares vuole fotografare la violenza e la desolazione di un paese profondamente cambiato, fulcro di un mondo alla deriva in cui attraverso una storia privata si raggiunge il cuore di un dramma collettivo. «Vengo dallo stato del Guanajuato, – ha dichiarato la regista – dove ci sono molti migranti che cercano di andare negli Stati Uniti. Quando ho letto un articolo sui tredici ragazzi rapiti da un autobus ho pensato a quale poteva essere stato il loro destino, e quello di centinaia di altre persone in Messico. Così ho iniziato a scrivere. Da oltre dodici anni siamo in guerra contro i cartelli ed è una guerra che coinvolge qualsiasi tipo di guadagno illecito: tratta di persone, sfruttamento sessuale, commercio di droga. Questi traffici usano le stesse rotte dei migranti».

 

In effetti, almeno nella prima parte, il film segue il solco del cinema civile, impegnato a osservare, indagare e denunciare il degrado umano (come rimanere indifferenti di fronte a quei sacchi neri di cadaveri accatastati in quel camion? all’odore di morte? alla disperazione di volti senza nome?) anche attraverso la sublimazione di certe atmosfere tese a radicalizzare la bellezza svanita della natura selvaggia, a esasperare un sentimento lontano e inespresso, reso sordo dall’aridità dell’uomo. L’ostinata ricerca di Magdalena è un atto di resistenza profondo e credibile. Inoltre, sebbene sia chiaro sin da subito quanto alla regista interessi mantenere una distanza di sicurezza dal dolore patito dalla sua protagonista (mai un controcampo di supporto, sempre il volto di Magdalena in primo piano o in totale, anche quando la macchina da presa la insegue per la strada, mai un dettaglio fuori posto a rimarcarne la sofferenza, e sarebbe bastato poco), emerge nettamente la volontà di innescare un dialogo tra una dimensione interiore e una terrena, tra un aldiquà e un altrove, in cui il sentimento (non il pietismo) la fa da padrone. Tuttavia, progressivamente, facendosi sempre più cupo e misterioso Sin señas particulares si lega ad una forma esoterica e ancestrale che ne rivela il lato più oscuro, morboso e pessimista. Nel finale, il colpo di scena (a dire il vero poco sorprendente) appare come l’ultimo tassello di un sistema controllato ed edificato alla maniera di un girone infernale dove cielo e terra si confondono ma pure la conferma di un’autorialità esibita e ingombrante che rivela l’inevitabile soglia del male privata di ogni orizzonte. Non più quindi un film sul confine dell’umano, sul limite della sua ricerca, sulla frontiera che è il mondo, come sembrava essere, bensì un corpo estraneo, ambiguo e instabile che chiude ogni processo di ibridazione, teso a specchiarsi e celebrarsi, rischiando così di soffocare.