Su Prime Video Un divano a Tunisi di Manele Labidi, ovvero la psicanalisi in versione araba

Iraniana, i primi (grandi) passi nel cinema Golshifteh Farahani li compie sui set di film realizzati nel suo paese natale talvolta da autori di primo piano della longeva e sempre sorprendente cinematografia dell’Iran (Dariush Mehrjui, Ebrahim Hatamikia, Bahman Ghobadi, Abbas Kiarostami, Asghar Farhadi). La sua figura artistica s’impone in breve tempo, così come la sua personalità e il suo impegno in cause sociali. Fin quando la sua indipendenza viene considerata scomoda dalle autorità iraniane, ritenuta persona non grata e costretta, alla fine degli anni Zero del Duemila, a lasciare l’Iran. Si trasferisce in Francia e prosegue la sua magnifica filmografia da apolide del cinema tra Europa, Stati Uniti, Nord Africa, Medio Oriente (tra i tanti film dell’attrice nata a Tehran nel 1983 si pensi al capolavoro di Jim Jarmusch Paterson).

 

 

Franco-tunisino è Un divano a Tunisi (Un divan à Tunis,  presentato a Venezia alle Giornate degli autori 2019), esordio nel lungometraggio della cineasta Manele Labidi, commedia che accanto alla protagonista tunisina Selma (Farahani) accoglie una moltitudine di personaggi minori che ruota attorno a quel che le accade al rientro a Tunisi dopo anni trascorsi in Francia. Capelli arruffati (che una parrucchiera impicciona cerca inutilmente di sistemare con un taglio quasi inguardabile), jeans, camicia larga e magliette, Selma sembra addentrarsi in un’impresa impossibile: aprire, nonostante sia sconsigliata da diversi personaggi, in una stanza della casa di famiglia uno studio di psicoterapia. Una sedia, un taccuino, un tavolo, un divano per avviare, anche se non ne ha l’autorizzazione, il suo nuovo lavoro. «Ma come, chi vuoi che in un paese arabo venga a farsi psicanalizzare?», è l’obiezione che in tanti le pongono. Eppure in poco tempo ci sarà la fila di pazienti davanti alla sua porta, ognuno con le proprie ossessioni, alcune delle quali decisamente comiche. Ed è sulla caratterizzazione di questa folla disomogenea, nella descrizione dei complessi di uomini e donne di estrazione diversa, che Labidi (autrice anche della sceneggiatura con la collaborazione di Maud Ameline) esprime la propria poetica, la riflessione su una società filtrata dall’umorismo, da battute efficaci (alcune molto, che strappano risate convinte), da situazioni talmente esagerate da sfiorare il surreale.

 

 

Un divano a Tunisi, affidato a una regia onesta pur senza picchi d’originalità, è un girotondo attorno a un divano, dentro una stanza, e per le strade della capitale e altri suoi luoghi, popolati anch’essi di personaggi tratteggiati con intelligenza (la coppia inetta di poliziotti, la segretaria del ministero alla quale Selma si rivolge per ottenere la legalizzazione dell’attività, il nonno di Selma che crede che Ben Ali sia ancora al potere, devoto alla sua immagine…). Irresistibile in certe scene e dialoghi, il film deve molto anche alle sfumature linguistiche, alle voci che indicano le psicologie dei personaggi, alla contaminazione di francese e arabo (andrebbe visto rigorosamente in versione originale, non sappiamo come sia stato possibile mantenere una tale ricchezza nel doppiaggio). Ma non scende mai nel trash, Un divano a Tunisi, piuttosto accenna toni da commedia sofisticata nel ritrarre un personaggio femminile conscio delle proprie possibilità, che mantiene le proprie convinzioni anche lontano dalla Francia (non è sposata, fuma molto, rivendica la propria libertà), che è sul punto di cedere, che riesce a farcela e a restare a Tunisi (è quello che vuole, lei “sta bene lì”, dice), e magari a innamorarsi (del poliziotto burbero che la ostacola ma più per dovere che per reale convinzione), immaginandosi camminare con lui sulla spiaggia. In un film incorniciato, all’inizio e alla fine, da due canzoni degli anni Sessanta cantate da Mina: Città vuota e Io sono quel che sono, quest’ultimo titolo perfetto per Selma ma anche per i tanti personaggi collaterali che appunto, ciascuno a modo suo, “sono quel che sono”.