Non è facile districarsi in quello che ormai è diventato un autentico genere a sé, ma volendo tracciare alcune linee generali, possiamo affermare che le trasposizioni dai live action disneyani, dopo i primi sussulti alla fine degli anni Novanta (ricordiamo La carica dei 101) hanno preso definitivamente piede dopo il 2015 di Cenerentola per poi diventare un fenomeno da botteghino nel 2017 con La bella e la bestia. Al continuo crescendo produttivo, fatto di film che hanno a loro volta generato sequel e spin-off, non è purtroppo corrisposta un’identità in grado di rendere queste operazioni congruenti dal punto di vista espressivo. La forma ibrida di animazione e live action (in quale delle due categorie va effettivamente collocato un film come Il re leone del 2019?) è diventata così un tutt’uno con l’indeterminatezza narrativa delle storie ricalcate sui modelli già consolidati dai prototipi animati. La sensazione, insomma, è quella di una produzione derivativa e parassitaria, che supera in peggio quella immediatamente precedente sul tema, ovvero i sequel direct-to-video dei capolavori animati (chi ricorda più i vari Cenerentola 2 o La carica dei 101 II – Macchia un eroe a Londra solo per citarne un paio?). In entrambi i casi spiace che a fronte della loro importante mole numerica e dell’impatto che hanno e stanno avendo sul mercato, queste operazioni non abbiano dimostrato il coraggio e la capacità di farsi banco di sperimentazione per nuove soluzioni narrative e visive, in nome di quella tendenza alla ricerca espressiva che era stata propria dello stesso Walt.
Quella, per intenderci, che permetteva ai classici di passare dal design più morbido e “europeo” della Biancaneve originale, ai concept più stilizzati di Mary Blair per Cenerentola o Peter Pan fino agli incredibili sfondi di Eyvind Earle per La bella addormentata nel bosco e si potrebbero citare tanti altri esempi. A questo, la produzione contemporanea ha saputo rispondere unicamente con la logica industriale dell’incasso a breve termine e dello sfruttamento intensivo dei franchise. Se quindi ora siamo qui a certificare il “caso” del Biancaneve di Marc Webb, arrivato nelle sale dopo una serie di rinvii e polemiche, legate soprattutto al dietro le quinte e alle presunte dichiarazioni “offensive” della protagonista Rachel Zegler verso il classico originale, non possiamo comunque nascondere quanto l’odio specifico che gli si è indirizzato addosso sia poco più che uno scossone di poco conto nel mare di inedia in cui tutte queste produzioni galleggiano. Al netto delle accese discussioni sul web che poco aggiungono sul piano della qualità artistica, il film resta infatti un prodotto inerte e figlio di tutti gli sbagli che già si riscontrano a monte di simili operazioni. A Marc Webb, si obietterà, si potrebbe comunque concedere l’attenuante di averci provato: il suo film trasforma infatti Biancaneve in un’eroina spavalda ma gentile, che cerca di riconquistare il regno che la Regina Malvagia ha strappato al suo generoso padre, alleandosi con una simpatica banda di ladri del bosco che cercano di sopperire all’evidente imbarazzo nella gestione dei sette mostruosi nani in CGI – frutto di un evidente equivoco con la comunità degli attori affetti da nanismo, che attraverso Peter Dinklage aveva avanzato l’ipotesi di stereotipizzazione, peraltro poi respinta da altri colleghi.
Il punto, però, non sono le variazioni sul canovaccio del film del 1937, quanto un’incertezza visiva che produce un risultato dozzinale nella resa espressiva e nella capacità di ogni elemento di farsi iconografia attiva: non un volto che sia in grado di restituire un’emozione, non un gesto filmico che vada al di là della mera illustrazione didascalica delle azioni o della citazione del già fatto, non un numero musicale che imprima forza a questo corpo filmico cadaverico – basterebbe citare, per fare un esempio, il delizioso numero conclusivo del Biancaneve realizzato da Tarsem Singh nel 2012 dove il brano I Believe in Love, precedentemente composto per il film Taking Off di Milos Forman, viene reinventato in chiave bollywoodiana dal geniale regista indiano, creando una stratificazione espressiva di gran classe. In ragione di questa intrinseca fragilità artistica, poco conta che la “nuova” Biancaneve sia una leader che si presenta fiera di fronte alla tiranna (peraltro con la mantella che la fa sembrare Cappuccetto Rosso, a proposito di avere le idee chiare, dopotutto ha anche la fissazione per le torte…). Qualsiasi aggiunta al “canone” non ne ispessisce la resa, ma risulta invece didascalica perché è articolata su un personaggio che rimane piatto, mentre la recitazione volenterosa ma acerba e tutta “faccette” di Rachel Zegler di certo non riesce a far compiere all’insieme un’evoluzione ulteriore.
La fiaba diventa così il vero frutto avvelenato che la produzione offre al suo pubblico perché la ingerisca e si addormenti, perché non rifletta sul carattere posticcio di una serie di comparti che non si amalgamano a formare un qualcosa di sensato. Cosa possiamo salvare allora? George Appleby e il suo maestro della balestra – e vorrà pur dire qualcosa se l’unico personaggio che si fa ricordare è interpretato da un attore nano – e il paradosso che vede come migliore scelta di casting l’attrice sulla carta peggiore, ovvero Gal Gadot. Non solo perché sembra perlomeno divertirsi e cavalca l’improbabilità dell’insieme con masochistica convinzione. Ma anche perché, tornando ancora una volta all’extra filmico, il fatto che la Regina Cattiva sia nella realtà un’ex soldatessa dell’IDF tocca le delicate corde del nostro presente storico, lasciando intravedere nel suo regno lo spettro dell’apartheid palestinese. Ma è solo un piccolo guizzo, che inevitabilmente si spegne nella mediocrità dilagante.