Una storia (im)mortale: Macbeth di Joel Coen, su Apple Tv+

Macbeth è l’opera più corta dell’intero canone shakespeariano, una tragedia che precipita rapidissima verso il suo finale di inesorabile distruzione. Una messa in scena rapinosa della hybris che nella tragedia classica veniva mostrata come la tracotanza orgogliosa che portava l’eroe a sopravvalutare il proprio potere e a ribellarsi all’ordine delle cose, divino, naturale o sociale che fosse; sopravvalutazione immancabilmente seguìta dalla punizione divina (tísis). Come spesso nelle sue tragedie, Shakespeare rilegge il dispositivo classico in chiave introspettiva, addirittura prepsicoanalitica, questa volta aggiungendo una cornice folklorica. Così, come ha intuito Giuseppe Verdi due secoli e mezzo dopo (e comunque mezzo secolo prima di Sigmund Freud), il narcisismo e il senso di onnipotenza irrefrenabili della coppia Macbeth/Lady Macbeth sono rispecchiati dalle/nelle apparizioni delle Streghe, che dicono con il linguaggio delle tradizioni popolari più radicate quello che non si può ancora dire con il linguaggio della scienza: la profondità storica dell’irrazionale tribale si fa metafora della visceralità dell’inconscio individuale.

 

 

Con il suo Macbeth, Joel Coen, qui alla sua prima esperienza di sceneggiatura e regia senza il fratello Ethan, fa piazza pulita di una tradizione di adattamenti che spinge sull’acceleratore dell’azione (veicolata in quantità dalla trama bellicosa della tragedia) e del pittoresco barbarico (lo stile medioevo nordico alla Trono di spade per intenderci). Mi limito a citare i più recenti di Bryan Enk (2003), Geoffrey Wright (2006) e Justin Kurzel (2015). La scelta di usare un bianco e nero scultoreo e a tratti metafisico (merito del direttore della fotografia Bruno Delbonnel), oltre che rendere esplicita la matrice estetica del racconto, ha come funzione primaria quella di neutralizzare qualunque concessione al colore locale trivializzato e al gore (le decollazioni abbondano…). L’omaggio a Macbeth (1948) di Orson Welles è fondativo e pervasivo allo stesso tempo. Da un lato la scelta di girare tutto il film in teatro di posa mantenendo l’impianto finzionale del palcoscenico getta le basi di un racconto che sopperisce all’essenzialità mimetica con un montaggio analogico e creativo (opera di Lucian Johnston e Reginald Jayne) che modula liberamente gli spazi fisici e simbolici della storia.

 

 

Dall’altro lato il rilievo quasi demiurgico dato al personaggio di Ross (un ipnotico Alex Hassell), che tiene le fila di tutte le azioni contenute nella storia, piani contropiani tattiche segreti disvelamenti, ricorda da vicino l’invenzione wellesiana del personaggio di Holy Father, che però era estraneo a Shakespeare. Come del resto Kathryn Hunter che interpreta allo stesso tempo le Streghe e il Vecchio ricorda Chieko Naniwa che interpretava lo Spirito della foresta in Trono di sangue (1957) di Akira Kurosawa. I puristi hanno storto il naso davanti alla condensazione narrativa e alla semplificazione linguistica che Coen ha fatto del testo di Shakespeare, ma la verità è che l’impasto tra l’inglese britannico di attori come Hassel e Bertie Carvel (Banquo), quello irlandese di Brendan Gleeson (Duncan) e quello americano di Denzel Washington (Macbeth) e Frances McDormand (Lady Macbeth) rende a un testo immortale la possibilità di raggiungere un pubblico che altrimenti non potrebbe goderne. Washington e McDormand sono impressionanti per la meticolosità e l’intensità dell’adesione ai loro personaggi e per l’understatement con cui tengono a bada l’enfasi teatrale, per lasciarla detonare solo nei momenti giusti, con la potenza di una freccia scagliata dopo essere stata a lungo trattenuta.