La Luna dalla Terra: First Man di Damien Chazelle

Per John F. Kennedy la Luna era un obiettivo da raggiungere proprio perché difficile, per il Neil Armstrong di Ryan Gosling è invece una tappa del progresso che può aiutare l’umanità a vedere le cose da una prospettiva differente. Una filosofia certamente condivisa da Damien Chazelle, che con questo suo nuovo First Man sembra proprio riflettere su come inquadrare da un altro punto di vista il celebre allunaggio del 20 Luglio 1969, al di là delle retoriche imposte dalla Storia e dall’eroismo dei pionieri. La missione dell’Apollo 11 è infatti il punto finale di una corsa alle stelle costellata di tentativi (spesso falliti) e sorpassi con l’Unione Sovietica, di attriti con governanti e opinione pubblica che urla allo spreco dei denari anticipando la retorica attuale dei “soldi nostri”: ma tutto questo, seppur presente nei 135 minuti di racconto, resta abbastanza sullo sfondo. Interessa invece il controcampo, quello creato da un protagonista taciturno e orientato a fare il suo lavoro, e che forgia il proprio percorso in quella fatica dell’impresa che lo accomuna ai protagonisti di Whiplash e La La Land. Se con quei titoli Chazelle prediligeva però l’estroflessione drammatica, attraverso una messinscena che accumulava segni, First Man è invece un film in sottrazione. Un personaggio di poche parole, emozioni riflesse negli sguardi e una tensione che si accumula lentamente, tanto nella dimensione lavorativa quanto in quella privata.

 

Anche per questo la macchina da presa stringe il campo d’azione, immerge le inquadrature nei dettagli, mentre l’impresa che pure storicamente percepiamo come frutto di un gruppo, diventa faccenda di un uomo solo (il “Man” del titolo, al singolare non a caso). Lui è il centro dell’azione, rovesciata però nell’introversione di un agire essenziale: il “grande passo per l’umanità” è davvero piccolo per l’uomo, è anzi il frutto di un percorso doloroso, l’elaborazione di un lutto dovuto alla perdita prematura della figlioletta, che, in una in una perfetta circolarità, accompagnerà la narrazione all’inizio e alla fine. In mezzo tanti possibili dualismi, che riflettono la dinamica del noto e dell’alternativa: un figlio che abbraccia Armstrong mentre l’altro gli stringe la mano, una luna guardata con un misto di timore e speranza, una moglie – Claire Foy, eccellente – che sa amare, ma cui non è riservata particolare tenerezza, una Terra affollata di conferenze mentre il satellite è scabro e monocromatico, la musica del sodale Justin Hurwitz, sinfonica ma spesso ricondotta alle poche note essenziali del tema principale (proprio come in La La Land). A rompere lo schema intervengono le sequenze in volo, potenti, totalmente immersive, dove il comparto sonoro è spinto al massimo secondo una logica vicina a quella dell’ultimo Christopher Nolan (quello di Dunkirk, non a caso, invece del più logico Interstellar). La resa espressiva in quei momenti è altissima e simbolizza l’aspetto più interessante del film: la capacità di lasciar parlare spazi e rumori. L’innovazione tecnologica dei razzi spaziali è così ridotta a sinfonia di lamiere che stridono, di viti che ruggiscono per tenere insieme i pezzi, mentre gli ambienti della NASA non hanno nulla del nitore che ci si aspetterebbe da un ente che macina tanto denaro, sono al contrario disadorni e sporchi di grasso e ruggine. Il pubblico può così vedere il mondo dagli occhi di Armstrong, negli ambienti claustrofobici delle navicelle dove i pianeti sono ritagliati da specchi e lunette di vetro e, forse, apprezzare la narrazione da un punto di vista davvero altro. Altrimenti resta lo sforzo di una ricerca d’alternative che però si accompagna anche a una serie di snodi narrativi alquanto convenzionali, fra perdite d’affetti e litigi coniugali prima della partenza. La parte nota della Storia non è quella raccontata sui giornali, ma quella imposta dalle logiche del biopic – il film è la trasposizione di un libro di James R. Hansen – e dall’incedere della vita quotidiana, che ha pure le sue retoriche.