Venezia77 – Dorogie Tovarischi! di Andrei Konchalovsky e il senso della Storia

Dorogie Tovarischi! (Cari compagni!) è il film con cui Andrei Konchalovsky, un habituè della Mostra del Cinema, toglie la polvere a una pagina vergognosa di storia sovietica. Un racconto rigoroso, che ci porta a ritroso nel tempo, al 1º giugno del 1962, quando nella cittadina russa di Nov Dorogie Ocherkassk, poco lontano dal Caucaso, l’esercito russo (o, con maggiore probabilità, un gruppetto di cecchini del KGB) aprì il fuoco su una folla inerme, uccidendo 26 persone e ferendone altre 87. Erano perlopiù operai di una fabbrica di locomotive e di altri stabilimenti del circondario, che stavano protestando per l’aumento del prezzo dei beni alimentari e per l’inadeguatezza dei salari. Fu un massacro inutile, oltre che ingiustificato, tra l’altro inedito nella pur sanguinosa epopea dell’Unione Sovietica, in cui era impensabile per i soldati sparare contro i lavoratori, non fosse che per marcare una distanza inequivocabile con l’atteggiamento delle milizie zariste. A misfatto avvenuto, i vertici del PCUS diedero l’ordine di insabbiare l’episodio, cancellandolo dunque dalla memoria collettiva, anche attraverso la predisposizione di formali dichiarazioni di segretezza fatte firmare ai testimoni, la cui violazione sarebbe stata punita con la pena capitale. Riemerso il fascicolo in piena Glasnost, l’indagine conseguente si concluse nel 1994 e pur non giungendo alla individuazione dei colpevoli, consentì il recupero delle salme che, seppellite dal KGB in tombe anonime, furono infine restituite alle famiglie.

 

 

Konchalovsky entra nella vicenda attraverso la figura di Lyudmila (interpretata da sua moglie, Yulija Vysotskaya, di strepitosa intensità), un personaggio di finzione assolutamente plausibile nella dinamica del racconto: è un membro locale del Partito Comunista, una reduce della 2ª Guerra Mondiale che manifesta fiducia totale nei confronti dell’apparato e degli ideali dell’URSS, sebbene poi nell’intimità della famiglia si lasci andare alla nostalgia di un tempo passato, in cui si era “disposti a morire per la Patria, per Stalin”. Dopo la sparatoria, Lyudmila – che in virtù della sua posizione gode di una prospettiva privilegiata seppure incompleta sugli eventi – è costretta a un’affannosa ricerca della figlia diciottenne (che ha partecipato alla protesta), proprio mentre la morsa di polizia, esercito e servizi segreti si stringe con burocratica efficienza sulla città assediata, al fine di eliminare ogni traccia dell’accaduto. La donna deve così confrontarsi con le storture, le bugie, le ipocrisie del sistema, man mano che i vertici governativi fanno scivolare responsabilità e rischi verso i livelli più bassi della gerarchia; e constata l’enfasi che ciascuno assegna al piccolo potere concesso da una posizione, quale che sia, nella gerarchia medesima. Konchalovsky, che si approcciò al cinema recitando ne L’infanzia di Ivan di Tarkovsky (per essere poi co-sceneggiatore del capolavoro Andrej Rublëv), è un autore eclettico, che non può essere confinato in un genere, né tantomeno associato a uno stile preciso. La sua filmografia è composta di opere diversissime tra loro, che tiene legate sotto il suo nome, con assoluta disinvoltura, gemme d’autore quali Storia di Asia Kljacina che amò senza sposarsi, Zio Vanja, Siberiade o Le notti bianche del postino con la suspense adrenalinica di Runaway Train, ma pure un lato melò non sempre misurato (Maria’s Lovers, Duet for One) con l’intrattenimento facile di Tango & Cash e Homer & Eddie, commedie fracassone del periodo americano.

 

 

In Dorogie Tovarischi! (in concorso) adotta un bianco e nero contrastato, molto luminoso, scegliendo il tradizionale formato d’immagine in 4:3, con inquadrature perlopiù fisse (contrappuntate però da un montaggio dinamico), per mettere in scena la perdita dell’innocenza di un popolo che vede calpestati gli ideali della Rivoluzione d’Ottobre, i propri sacrifici, e assiste al crollo dell’idea stessa di una società nuova e democratica. Ne risultano un’ambientazione e una messa in scena semplici e sontuose allo stesso tempo, perfettamente funzionali alla realizzazione da parte di Konchalovsky di un tributo “alla purezza di quella generazione a cui appartenevano i miei genitori”. In sede di conferenza stampa veneziana, il regista ha voluto ridimensionare la portata universale di questa sua opera, argomentando: “Il mio non è un film sull’URSS o sulle rivolte sociali, ma su un preciso fatto storico”. Aggiungendo, però, dopo un’esitazione: “Va comunque detto che il potere ha sempre un solo obiettivo: mantenere se stesso”. Se anche le ambizioni di partenza dell’ottantatreenne autore moscovita fossero state davvero contenute, di fatto egli riesce ad andare oltre le intenzioni: il film ha un respiro che trascende il resoconto puntuale e la sua ricostruzione, per diventare prima riflessione partecipe, quindi interpretazione eloquente di una parabola politica e sociale che ha segnato il 20º secolo. Capace di racchiudere dentro di sé anche il senso di questa nella Storia, attraverso una sequenza di bellezza abbacinante. Accade quando Lyudmila, disperata e stordita dalla vodka, sulla strada del ritorno da un cimitero di campagna in cui pensa di aver trovato il cadavere della figlia, si rinfresca sulla riva di un affluente del fiume Don (o forse del Don stesso) e vede in lontananza dei ragazzi che, in acqua, giocano spensierati con i loro cavalli: ebbene, i giovani in sella sembrano cosacchi di altra epoca, il tempo resta sospeso, e il passato pare lanciare un ponte verso il futuro, che per la donna sarà meno tragico di quanto immagina in quel momento. Cinema classico ma non vecchio, potente, pieno di fascino discreto ma persistente.