Venezia77 – Il grido, il pianto solitario in Sì di Luca Ferri

È l’irrimediabile pessimismo a guidare le ultime opere di Luca Ferri, il regista bergamasco, ormai avvezzo alle atmosfere dei festival di nicchia che però, dopo l’esordio con il fondamentale (per la sua filmografia) Colombi, torna ad occupare un posto nel Festival più importante d’Italia, nella stessa sezione Orizzonti che ha visto il suo esordio a Venezia. ha l’aria di essere un film quasi segreto, elaborato in privato, composto da immagini selezionate dall’archivio Prelinger che condensa la storia universale, partendo dall’atomo. ll tratto più evidente di questo breve film, è, in sincrono con la durata, il suo titolo, sintetico e misterioso. Un’affermazione che sembra quasi debba essere letta al contrario, come una negazione di ogni soluzione. Ma il Si di Ferri nasce dalle suggestioni e dalla meditata e amorevole lettura di Thomas Bernhard, lo scrittore austriaco, morto nel 1989 e simbolo di una cultura ostinata e contraria ad ogni forma di ipocrisia, maledettamente pessimista sul mondo e sui suoi destini e con giudizi pochissimo lusinghieri sul genere umano tanto da essersi ritirato negli ultimi anni, ad una vita solitaria, rifiutando qualsiasi offerta di eventi pubblici. Salisburghese di nascita, venne conosciuto in Italia proprio con La cantina. Una via di scampo, nel quale con toni espliciti manifestava il suo astio profondo verso i suoi concittadini. Ma forse, il segno maggiore che Bernhard ha lasciato al futuro è la sua capacità di essere un profondo esaminatore dell’animo umano in quella instancabile riflessione sul senso della vita e, soprattutto, sul senso di e della morte. Diceva Bernhard che ogni uomo ha sempre e più volte nella vita pensato al suicidio. Il libro dal quale il film di Luca Ferri trae spunto è proprio un romanzo del 1978. Lo spunto e il senso ultimo di quel libro, sono le uniche tracce che si sovrappongono con il film, in una specie di omaggio ad un pensiero privo di speranza e chiuso in un mondo privo di vie d’uscita. d’altra parte il cinema di Luca Ferri non sarà mai l’adattamento di un romanzo o di qualsiasi testo narrativo.

 

 

, comincia con il mettere in discussione l’idea di cinema. Non è la prima volta che l’autore bergamasco infrangendo ogni regola non scritta, si fa portatore di eresie cinematografiche. Qui con , composto dai due piani paralleli costituiti da testo e immagini, l’autore sembra stabilizzare l’immagine nella stessa immobilità che suggerisce il testo che scorre a fianco senza alcun intento didascalico. Ferri, ancora una volta, adatta il dispositivo del cinema per dare vita ai suoi pamphlet radicali utili anche a reinterpretare il ruolo delle stesse immagini, lavorando su una nuova sintassi, destabilizzante, del discorso cinematografico. Tutto avviene attraverso un utilizzo delle immagini in funzione esclusivamente artistica e quindi lontana da ogni accezione ideologica, ma al contempo per nulla mistificatoria rispetto alle finalità e comunque avulsa da ogni simbolismo e da ogni politica vera o falsa di necessaria autorialità. Forse è questo il film in cui questo processo di depurazione da ogni legame anche con il presente, che possa essere interpretato come critica sociale, si manifesta con maggiore forza e forse maggiore efficacia. D’altra parte il profilo artistico del regista bergamasco ormai è conosciuto e pochissimi sono i suoi film narrativi e anche in quei pochi la narrazione sembra emergere costretta dentro i concetti e gli ironici formalismi o è, per l’appunto, polverizzata dentro il magma delle idee che la sommergono (Abacuc) oppure è indotta da uno sguardo dello spettatore che la ricerca e la vede, forse dove non c’è o dove, forse, l’intenzione non c’è neppure stata (Ab ovo). Anche non si sottrae a questa regola e ripercorre sentieri già tracciati, ma con differente e più riflessiva (meno goliardica, se ci si passa il termine) intenzione.

 

 

Gli anni passano e le cose del mondo vanno peggio. Se Colombi rifletteva sul fallimento della modernità e sulle bugie di un progresso salvifico, rivelandosi, invece, come un infelice esperimento che procurava altrettanta infelicità agli uomini, che a quanto pare è solo il primo atto di un progetto sull’assenza che prevede altri film in futuro, si attesta come una riflessione assai più generalizzata che riguarda il genere umano, pur dall’ottica di una esperienza personale, e per questo ancora più pessimista e testardamente negativa nei confronti di ogni consociazione collettiva e di ogni manifestazione di potenza sul sul mondo. È necessario a questo punto, provare a riassumere il contenuto del film. In uno schermo diviso in due parti scorrono, da una parte immagini di una specie di genesi che prende avvio dall’atomo per finire dentro una specie di presente archetipico fatto di réclame pubblicitarie e incubi televisivi. Un uomo si addormenta davanti alla tv e una spietata caccia all’orso in Alaska con tanto di scuoiazioni prende avvio. Dall’altra parte dello schermo scorre un testo scritto dallo stesso regista che racconta un episodio della sua infanzia che vede protagonista un uomo che con scrupolosa attenzione prepara la sua morte nel ricordo di quel passato che gli è caro. Il fidato Dario Agazzi compone la musica, definita dallo stesso Ferri “testamentaria” che con le due composizioni Congedo e Commiato, accompagna con lucida efficacia il film.

Su queste immagini, su quelle parole e su quella musica, si consuma la tragedia ferriana e il senso di quella collettiva che incombe e che non sappiamo vedere. Ferri si fa testimone di un irrimediabile pessimismo, giunto al collo dell’imbuto. In parallelo con il “suo” Bernhard le immagini sintetizzano la catastrofe già annunciata. La pacificazione che la trilogia domestica ci aveva offerto, rinchiusi dentro le protettive mura delle residenze, è finita. Il cinema di Ferri torna a farsi sguardo inesorabile. Le immagini di diventano il tratto ideale che accompagna la nascita della vita, la sua evoluzione e il suo svuotamento di senso per giungere, infine, ad una rappresentazione dell’incombente disastro finale. Le sequenze della nascita e quindi della evoluzione della vita, introducono quelle di uomini felici che mostrano all’obiettivo, quindi al mondo, il dolore della morte dell’orso bianco. Una rappresentazione della morte che sgomenta per l’irrisione che produce nei cacciatori. Sequenze che fanno da anticamera a ciò che accade sull’altra parte dello schermo. Qui, senza alcuna intenzione didascalica, ma in forma deviante, rispetto alle immagini, scorre il racconto della povera storia intima, di una morte che si consuma al di fuori di ogni palcoscenico in forma minimale, come lo sono i sentimenti che si colgono nel racconto in forma di ultima confessione. Dopo la bella trilogia domestica, dove la sperimentazione di Ferri diventava anche sguardo mutevole sul fare cinema con il desiderio di modificare l’approccio in funzione del supporto utilizzato il che conferiva sostrato teorico allo sviluppo del progetto in tre parti, la sua riflessione smette, ancora una volta, di affondare lo sguardo in un reale tangibile e riconoscibile, come quello che accade dentro le mure domestiche, per ritornare, con un antico vigore espressivo, ma un inguaribile pessimismo, verso quella inaccettabile, ma inevitabile, accettazione di una condizione umana senza rimedio e senza perdono. È il Maestro Bernhard, la guida ideale per questo percorso così silenzioso e accidentato che Luca Ferri ha scelto per ricomporre le sue amare meditazioni. diventa, con le immagini selezionate dall’archivio Prelinger, un ulteriore pamphlet razionalmente arrabbiato, poeticamente ineccepibile, pervaso da una ricerca di una introvabile vera umanità. Non è un grido, è un pianto solitario, una pagina disperata che coincide con la disperazione di Bernhard e ricorda molto da vicino quella di Céline.