L’autogestione di Spin Time, che fatica la democrazia! di Sabina Guzzanti

“Spin” è la rivoluzione, quella del globo terrestre (anche se oggi, affiancata alla parola “doctor”, evoca l’eminenza grigia di ogni immaginabile propaganda). Un nome programmatico, dunque, Spin Time. E, aspettando la rivoluzione, auspicando e costruendo, neanche troppo velatamente, i tempi per un moto giocoso e profondo di cambiamento (tutti giù per terra), Sabina Guzzanti, in questo caso più Frederick Wiseman alla romana che Michael Moore de noantri, decide di puntare con caparbietà e ascolto il riflettore su una realtà piuttosto unica di disagio e sperimentazione del corpo sociale. Facendo un passo indietro, con limitate e funzionali incursioni davanti alla macchina da presa e una voce (over) meno ideologica e più interlocutoria che in passate occasioni, getta luce sugli occupanti del palazzo di Santa Croce in Gerusalemme, 400 persone, 180 famiglie di una ventina di etnie che vivono illegalmente ma fieramente in questa fetta d’Esquilino, sottratta al vuoto post-statale (era sede dell’Indap) nel 2012 da Action, collettivo che combatte per sopperire alle carenze abitative con manifestazioni, militanza e occupazioni.

 

 

Il luogo attirò l’attenzione dei media, in particolare, quando staccarono la luce d’un tratto, e l’Elimosiniere del Papa, Konrad Krajewsi, decise, senza autorizzazioni, di riattaccare materialmente l’elettricità dell’edificio. Una provocazione, letteralmente edificante e illuminante. Una storia esemplare (che non a caso ha fatto il giro del mondo, a proposito di rivoluzioni), in cui spirito missionario e disobbedienza civile assumono il valore, simbolico e fattivo, di fare luce sulla povertà, nella sua forma più eclatante e stridente, la mancanza di un tetto dove dormire. E Guzzanti prende spunto da questa scintilla per raccontare uno spazio sociale che, nel centro di Roma, prova a riscrivere le norme della convivenza in un’autogestione resistente e non priva di imperfezioni e contraddizioni. Lo stabile occupato di sette piani ha una parte superiore abitativa, dove vivono famiglie di ogni provenienza, mentre i piani inferiori sono stati utilizzati per un progetto culturale variegato e controverso (internamente e per il mondo di fuori), che va dai corsi di ballo al teatro, dalla musica tecno al laboratorio di teatro. Un po’ come il documentarista americano raccontava Jackson Heights, l’area più multietnica di New York, nel mezzo del Queens, così l’attrice autrice, comica e attivista decide di entrare in punta di piedi in questa realtà diseredata e variopinta, osservandone, a partire e finire dai bambini, le dinamiche interne, la frizioni e le potenzialità, seguendone il tentativo di resistenza sempre sospeso fra utopia e piccinerie, tentativi di organizzarsi e spinte anarchiche, attriti e potenzialità di una convivenza comunitaria sotto minaccia, da fuori e da dentro.

 

 

Ché, infatti, come ricorda il sottotitolo, la democrazia è faticosa e il confrontarsi fra leader carismatici, assemblea degli abitanti, Comitato eletto per regolare il funzionamento della comunità, aspirando a una pratica di democrazia diretta, nei fatti spesso sfocia in una perenne riunione condominiale cacofonica, nelle ripicche e nelle prevaricazioni di una comunità di diverse origini e culture (dialogo fra sordi e guerra fra poveri). Se non si sfocia mai nei paradossi orwelliani di un ribaltamento totale dei meccanismi di emancipazione, certo le dinamiche del potere e dell’oppressione sembrano tuttavia far parte non solo del Sistema là fuori ma essere al cuore di meccanismi interiorizzati che emergono dando luogo non di rado a scontri, incomprensioni e prevaricazioni. In questa realtà, ancorché la militanza politica, può il teatro: ecco che l’esperienza di Christina Zoniou, che dalla martoriata Grecia importa l’esperienza del “teatro dell’oppresso”, utilizza il “gioco” teatrale per costruire occasioni e linguaggi, consapevolezze e rivelazioni che faticano a emergere nel contesto abituale e quotidiano, anche quando animato dalle migliori intenzioni. Questa chiave di accesso, e questa via di comunicazione, non solo mette in collegamento la parte abitativa e quella culturale, ma si rivela un contraltare utile a far fuoriuscire da quei vicoli ciechi d’incomunicabilità, potere e violenza che nascono e proliferano nella comunità marginale e sotto pressione. Questa zona franca rappresentata dal teatro sociale, messa in scena in cui la Guzzanti si presta a incarnare il ruolo e la voce dell’aguzzina o del provocatore, è il vero spazio dove la società s’illumina, comprendendo e provando a disinnescare alcune sue dinamiche prevaricatorie che tendono a replicarsi anche nei progetti animati dai più nobili propositi. Questa strada per raccontare una via d’uscita politico-estetica consente al film, per quanto militante e di parte, di non chiudersi in una dimostrazione a tesi ma di aprire su un possibile altrove, e di mettere in gioco il suo stesso punto di vista, sfuggendo alla tentazione di raccontare un mondo fatalmente condannato o illusoriamente salvo, conservando l’ambiguità, le contraddizioni e il lavoro che ogni percorso di miglioramento sociale porta con sé, lasciando parlare le molteplici voci della realtà che va in scena, spesso fuori campo e nell’ombra, in questi tempi non facili eppure mai disperati.