Nelle stanze spoglie di un edificio parigino un uomo attende. È un killer e sta aspettando il momento di eseguire il suo mandato. Le sue azioni sono calcolate, i suoi movimenti programmati, la voce fuori campo elenca le accortezze e la routine del suo mestiere: la prima regola è non dare nell’occhio. Inaspettatamente un imprevisto inceppa il meccanismo e l’uomo è costretto a darsi alla fuga. Torna a casa, a Santo Domingo, dove scopre che la sua compagna è stata massacrata di botte nella loro bianchissima villa caraibica. Il killer si mette sulle tracce degli assalitori – i committenti dell’omicidio fallito – ricostruendo la catena dei responsabili (una sorta di scala di potere e responsabilità da risalire gradino dopo gradino) per vendicarsi e proteggersi. E l’unico modo che conosce per proteggersi è eliminare – in maniera fredda, pulita, asettica – chiunque possa ostacolare la propria strada. Il percorso è un viaggio nel cuore del capitalismo avanzato, del mondo ipertecnologico in cui siamo immersi: New Orleans, New York, Chicago. Il killer senza nome si muove come un fantasma, si rende – nelle sue stesse parole – insignificante, incapace di lasciare memoria di sé agli occhi delle persone che sfiora. The Killer, tratto da un graphic novel dei Jacamon & Matz, è un thriller che presto devia nel revenge movie, rendendo omaggio a certe atmosfere devote al cinema di Melville, calato però in un contesto puramente contemporaneo, in un mondo in cui tutto e tutti sono tracciabili, rintracciabili, vittime di un impalpabile controllo.
David Fincher, dopo l’escursione wellesiana di Mank, gioca con il genere per tracciare delle coordinate adatte al cinema e al mondo di oggi. L’assassino (interpretato con il giusto distacco privo di empatia da Michael Fassbender) è un vettore, un meccanismo di azione pura che non concede spazio a ripensamenti o sentimenti. Non ha rimorsi, non crede nel caso, funziona come una sofisticata intelligenza artificiale. Non fornendoci indizi sul suo background amoroso, anche la motivazione sentimentale e protettiva della sua vendetta resta vaga, suggerendo piuttosto un’adesione completa alla legge di natura, a un puro istinto di autoconservazione. The Killer è un saggio di regia: la messa in scena di Fincher sembra seguire alla lettera le istruzioni del protagonista sulla realizzazione dei suoi omicidi. È asciutta, cristallina, implacabile. Una continua composizione e scomposizione di inquadrature, regole, geometrie. In ambientazioni livide e principalmente notturne asciuga – esplodendo poi a un tratto in una sequenza di colluttazione quasi ferina – fino all’astrazione, cercando l’essenziale nella cura maniacale dell’immagine.
The Killer è la versione filmica di un quadro di Mondrian, capace di distillare lo stile fino a ridurlo a una forma universale, basica, assoluta. Anche la reiterazione della voce fuori campo, la divisione in capitoli, la funzione di puro movimento (e stasi) del protagonista richiamano a uno schema narrativo infallibile, codificato, algebrico, calato nella riflessione sulla realtà in cui siamo immersi. The Killer è, certo, anche un film di confezione, adatto al consumo dello spettatore tipo che ipotizza la produzione di Netflix. Ma è anche un modo – se non l’unico, uno dei pochi – di poter ragionare sulla produzione contemporanea dell’immagine, sul potere del racconto visivo, sull’autorialità ai tempi dello streaming.