Il sacrificio dei figli in Felicità, di Micaela Ramazzotti

Si parla molto di cinema italiano tra speranze e delusioni, tra recriminazioni e desideri inappagati il nostro resta un cinema senza una precisa identità, ma che vive, come accade d’altra parte anche per altre vicende, sulla capacità personale del tutto occasionale più che su un lavoro permanente che garantisca un futuro e una continuità. In ogni caso il nostro cinema ha garantito ben sei posti nel Concorso principale di questa ottantesima Mostra del Cinema di Venezia. Tra i titoli non inseriti nel Concorso principale, ma sicuramente in una posizione di privilegio in Orizzonti Extra (dove ha vinto il premio degli spettatori), troviamo l’esordio di Micaela Ramazzotti dietro la macchina da presa con Felicità. Un film che, ancora una volta facendo tesoro del passato, inventa una possibile ibridazione tra dramma e commedia, guardando al microcosmo familiare e facendo nascere da questa indagine una vicenda credibile che sa restare in contiguità con il quotidiano con uno sforzo di adesione ad una realtà possibile che il cinema italiano non sempre sa ricostruire e non sempre sa mettere in scena. Il punto di forza di Felicità trova origine sicuramente nella scrittura dei personaggi, nel loro spessore con il quale misurano la vicinanza con la realtà che il film intende riprodurre. È la stessa Ramazzotti in collaborazione con Isabella Cecchi e Alessandra Guidi, per una sceneggiatura tutta al femminile, a scrivere la sceneggiatura tra dialoghi e situazioni credibili dentro i quali si muove Desirè, la protagonista della storia, generosa e instancabile, che sembra attingere ai personaggi cari all’attrice – regista e pertanto un personaggio al quale solo la stessa Micaela Ramazzotti, con il suo istinto naturale, poteva dare volto e spessore.

 

 

Desirè lavora come parrucchiera nel mondo del cinema, con una disponibilità eccessiva verso gli uomini. Viene fuori da una famiglia non proprio esemplare con il padre (Max Tortora) sufficientemente fannullone lavora in una scalcinata TV privata con tanto di giacca con i lustrini, la madre (Anna Galiena) incapace di cogliere la realtà che la circonda e soprattutto la depressione dell’altro figlio, Claudio (Matteo Olivetti) che in più occasioni tenta il suicidio. Desirè mette i soldi da parte da anni e pensa al proprio futuro, ma il ruolo di garante che le viene chiesto di assumere per un finanziamento che serva a dare un lavoro a Claudio la mette nei guai e aggrava il suo già difficile rapporto con il compagno Bruno (Sergio Rubini), docente universitario e distante anni luce dal mondo di Desirè. Si occuperà con affetto amorevole della malattia del fratello e sarà lei da sola a sbrogliare le difficili situazioni con la generosità che la distingue. Un film che sa coniugare, con intelligenza, il trascorso del nostro cinema, in quei percorsi molteplici e variegati delle declinazioni che la commedia ha avuto in questi anni, con il dramma familiare dentro un registro di realismo felice che riporta all’interno di una classicità collaudata temi non del tutto sfruttati o affrontati. L’originalità del racconto e soprattutto della sua scrittura sta in questo dramma a suo modo rovesciato che vede la protagonista Desirè, vero animale da combattimento, venire incontro e sacrificarsi per la propria sgangherata famiglia.

 

 

Un tema che in realtà è poco, se non pochissimo frequentato dal cinema italiano e non soltanto da quello. Il tema del sacrificio filiale come rimedio alla fragilità dei rapporti, all’incapacità di gestirne i momenti critici. È qui il pregio di un film che sa misurare con attenzione i tempi della drammatica vicenda dentro uno svolgersi credibile del racconto, in quel calibrato svolgersi del dramma all’interno delle fattezze di una commedia. Si apprezza dunque la pazienza per un lavoro creativo che ottiene il risultato di una costruzione narrativa che non sfigura nel panorama internazionale raccontando un’Italia sommersa, periferica e reale. Desiré resta figlia della Sonia di Tutta la vita davanti e di Simona di Il nome del figlio, in una continuità che distingua e caratterizza il percorso artistico dell’attrice e regista romana. Non vi è dubbio che l’autrice e interprete abbia portato con sé in questa suo nuovo lavoro per un altro personaggio coatto ma con una grande voglia di riscatto, il proprio passato vestendo alla perfezione i panni di una donna che fa dell’insicurezza la sua certezza e la chiave di accesso ad un mondo più grande di lei e che non tutto sa interpretare alla perfezione. Una prova superata che vede nascere un film che merita le attenzioni di quel pubblico che attende con piacere il riaffermarsi del cinema italiano senza troppo chiedersi se si tratti di un film d’autore o meno, ma riconoscendone comunque la qualità quando c’è. Felicità senza pretese di originalità a tutti i costi resta un film onesto e generoso come la sua fragile Desirè.