Non è in rotoscope come nel precedente Apollo 10 e mezzo (senza dimenticare i pionieristici Waking Life e A Scanner Darkly), ma è come se lo fosse il mondo di Gary Johnson, ultimo protagonista del cinema di Richard Linklater. La sua vita è in effetti un insieme di strati multipli che sembrano tracciati da una mano altra: certo, lui, docente di filosofia, insiste con i suoi studenti sulla natura arbitraria delle identità, ancor più se le stesse seguono i costrutti sociali, e si dichiara felice di vivere solo con i suoi gatti, arrotondando con saltuarie collaborazioni per la polizia. Ma la sensazione è comunque di vederlo attraverso un filtro che le circostanze gli hanno imposto e che poi, non a caso, decideranno all’improvviso di rimuovere. Magari solo per aggiungerne dei nuovi. Si basa su simili, semplici eppure complessi, presupposti Hit Man, folgorante commedia dalle tinte noir, con cui Linklater racconta la liberazione del suo personaggio, o magari la posa in opera delle sue teorie, lavorando in addizione sulle sue identità. Impiegato come consulente per incastrare chi ingaggia killer a pagamento, il nostro viene infatti sbattuto direttamente sul campo dopo che il collega di solito designato per il ruolo principale è stato sospeso. Quella che nasce come un’emergenza, diventa però per il nostro l’occasione di mettere a frutto quei futuri possibili da sempre ipotizzati nelle sue lezioni teoriche, e a Linklater per trasformare l’uomo nel suo nuovo Boyhood, da osservare nelle trasformazioni del tempo.
Che non sono date dalla crescita (quella esteriore almeno), ma dai divertiti mascheramenti che il nostro di volta in volta appronta per affrontare ogni singolo caso. E anche dal modo in cui, pirandellianamente, tutte queste maschere, indossate come un abito di scena da usare solo alla bisogna, finiscono per riflettere e produrre una ricaduta sulla vita “reale”. Accade infatti che a un certo punto uno di questi “doppi”, Ray, diventi l’identità perfetta per conquistare quella che si rivelerà la donna dei sogni, Madison, che dopo essere stata convinta a non uccidere il marito, diventa un’amante focosa con cui ingaggiare un gioco di identità non rivelate (nessuna domanda, nessuna pretesa sulla vita altrui), che naturalmente non farà che rendere il meccanismo narrativo sempre più intricato. Il film è diretto con un piglio divertito, un ritmo scatenato e una complicità totale con i due interpreti: Glenn Powell ridisegna e rimodula la stolidità del suo personaggio di Top Gun: Maverick in una duttilità interpretativa che gli permette di cambiare continuamente pelle, dalla goffaggine del nerd alla durezza del falso killer.
È poi un valore aggiunto la presenza di Adria Arjona, che praticamente è ancora dentro le vertigini identitarie di 6 Underground, ma con l’aggiunta di un nuovo mix irresistibile di ironia e sensualità. La loro chimica contagia l’intero film , in un continuo duello di volontà tra le spinte del mondo esterno e la forza del desiderio interiore. Si ridisegna in questo modo un universo spogliato dalla morale e dalla verità, che riflette sull’indole umana e sulla violenza, sia come pratica quotidiana nella nostra società, che come elemento di fascinazione. Tema che in altri mani avrebbe esiti ben più problematici, ma che Linklater plasma come irresistibile meccanismo di ilarità e colpi di genio, in una messinscena tanto attenta all’umanità dei personaggi, quanto alla posa in opera di un perfetto congegno thriller, senza buoni né cattivi, ma dove non ci sono dubbi da che parte stare. Ispirato a un fatto reale e presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2023.