L’11 settembre 2023 saranno passati cinquant’anni dalla morte (dall’omicidio?) di Salvador Allende e dal tragico esito di un golpe militare che avrebbe tenuto il Cile sotto il giogo della dittatura militare per quasi un ventennio. Il regime del generale Augusto Pinochet – dopo anni e anni di omicidi, torture, violenze e repressioni – cadde grazie a un plebiscito popolare indetto nel 1988. Pinochet lasciò il potere nel 1990 e non pagò mai per le proprie brutali azioni: morì, da uomo libero, il 10 dicembre del 2006. Ma le colpe non si estinguono, i delitti non hanno data di scadenza e così Pablo Larraín – che agli anni della dittatura aveva già dedicato tre film, Tony Manero, Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno – immagina un Pinochet vivo e vegeto, un vampiro in servizio da 250 anni rintanato in una villa délabré nella campagna sperduta della Patagonia. Pinochet è però stanco della sua immortalità, disgustato dal popolo che gli ha voltato le spalle: è disposto a farsi dare dell’assassino ma non sopporta la recriminazione sui latrocini – evasione fiscale, riciclaggio – che lo hanno arricchito illegalmente alle spalle del suo paese. Il “conte” vuole lasciarsi morire, nonostante la contrarietà della mefistofelica moglie Lucía Hiriart e del servitore Fyodor, fedele massacratore di comunisti.
L’arrivo dei cinque figli, litigiosi e grigi, interessati solo alla spartizione delle ricchezze paterne, ingarbuglia ulteriormente la situazione mentre la voglia di vivere (e di uccidere) di Pinochet si risveglia di fronte alla comparsa di una giovane suora esorcista che si finge contabile, capace di risvegliare i sensi e l’eccitazione del vecchio vampiro. Larraín, figlio di due importanti politici conservatori, a loro modo collusi con il regime, torna alla sua ossessione mettendo al centro della scena proprio il generale, ma affrontandolo con le armi del grottesco e della satira, giocando con l’horror e provocando effetti comici raggelanti e amari. El conde (in concorso a Venezia80) è un film dalla trama surreale e contorta che gradualmente compone il suo quadro diventando una terrificante metafora politica sulla violenza del potere costituito. Il0 passato non muore mai, la ferocia ha radici antiche – qui nella Francia della Rivoluzione dove il soldato del Re Pinoche diventa vampiro, lecca la lama della ghigliottina ancora intrisa del sangue di Maria Antonietta e mette in scena la propria morte per potere riapparire, nell’ombra, nel Cile del 1973 – e continua a cibarsi del sangue della sua gente. Il conte di notte vola sulla “sua” Santiago, vittima della propria nostalgia e carnefice del popolo. Come prima. Come sempre. Pinochet di giorno si muove in casa con il deambulatore, ma di notte si libra nel cielo, entra nelle case, strappa cuori ancora pulsanti da frullare e bere.
Il bianco e nero della magnifica fotografia di Ed Lachman non cancella alcuni dettagli di crudeltà, di placido massacro. Ma El conde ha la patina della fiaba nera che è la superficie di un sarcasmo mai fine a se stesso. Perché nel racconto di Larraín non c’è nessuna possibilità assolutoria: il male, portato al parossismo, non ha accesso al perdono. La condanna è immortale, proprio come il conte. E il discorso politico prende una forma sempre più precisa fino a un clamoroso coup de théâtre che affonda le radici del potere malvagio di Pinochet in un discorso più ampio, trovando un filo rosso tra i poteri – militari, politici, religiosi – destinati a massacrare per poter sopravvivere. El conde è un film sopra le righe, che gioca in maniera assai seria e consapevole, in cui forse non tutto torna alla perfezione, ma che ha il coraggio di mettere in scena il tragico (recente) passato del Cile – e non solo – con la forza simbolica del gotico, con l’arma tagliente dell’intelligenza, con l’impulso visionario del cinema.