Un film fatto di musica e di luce, Maestro, di Bradley Cooper

Dopo A star is born del 2018, Cooper torna alla regia di un film in cui di nuovo la musica diventa scenario del racconto. Maestro  (a Venezia80) fonde la classicità del biopic con l’urgenza di una storia fatta di passioni carsiche o manifeste, brucianti come la presenza del suo protagonista sul palco della direzione dell’orchestra. Cooper da prova di sé e da volto (eterno) al direttore d’orchestra e musicista Leonard Bernstein, ma anche come autore della sceneggiatura insieme a Josh Singer. Maestro, diciamolo da subito, brilla di luce propria e non ha bisogno di catturare altrove la sua coeva luminosa essenza, neppure quella riflessa del suo divo hollywoodiano e demiurgo dell’opera. Diviso in due parti non scandite da capitoli se non quelli che istintivamente si riconoscono in una narrazione classica che occupa tutta la prima parte in un lucido bianco e nero e in una narrazione più sincopata con l’uso del colore per gli anni della maturità. Storia di un artista, ma anche storia intima e familiare condotta sul filo di quell’amore sincero e insostituibile, benché a tratti inespresso per Felicia Montealegre, Carey Mulligan, che gli resterà accanto, nonostante le sue curiosità e inquietudini e le sue esplicite tensioni omosessuali. Ma la musica, l’amore, i figli e il suo girovagare, che traduceva la sua natura irrequieta, contribuiscono a dare spirito e anima ad un film come Maestro nel quale si assiste a quella parabola della vita dell’artista sotto i colpi di una progressiva completezza e maturazione musicale, ma anche di quella trasformazione fisica che il trucco di Kazu Hiro sa cogliere non solo con una perizia non immaginabile, ma anche con il diffondersi e il mutare di una particolare aura che sembra che segnano il passare degli anni sul viso di Cooper-Bernstein.

 

 

È proprio la luce, elemento succedaneo della musica, a pervadere quello spazio fisico che le immagini sanno racchiudere come tema fondante del racconto. Spazi privati e pubblici, intimi e corali che segnano la vita del personaggio. Un film che sa farsi al contempo omaggio esplicito al cinema classico americano e qui non bisogna dimenticare che tra i produttori vi è anche Martin Scorsese, in quella vertigine visiva che sovrappone i fatti in un respiro, e in quel bianco e nero lucido e che brilla come l’ascesa dell’artista dopo i primi anni della carriera, dopo un esordio da sostituto per l’improvvisa assenza del direttore d’orchestra designato. Frenetica e altrettanto creativa la seconda parte segnata da un altrettanto magnifico colore che attraversa i tempi più recenti segnati dai successi delle sue direzioni e delle sue creature musicali. Un colore che si fa grigio sul volto di Felicia malata, nonostante il recupero della loro storia d’amore infinita, che trova un punto d’arrivo dopo avere superato drammi e pentimenti. È in questi ambienti che Cooper, vero corpo partecipante al film, presenza indispensabile e massiccia che prendono vita i due elementi che restano necessari a questo film. Il primo la musica dentro la quale si disperde l’anima dell’artista, universo da catturare con il gesto della direzione e foglio da segnare con la scrittura delle note dentro una creatività incessante, l’altro è l’amore come scenario essenziale e linfa vitale che tiene in piedi l’esistenza. È magnifico il rapporto tra Leonard e Felicia. È commovente il loro allontanarsi e avvicinarsi in una oscillazione perenne che attrae e respinge, che desidera e rifiuta, dove l’atto del rifiuto non è quello dell’amore, ma quello di una libertà che sembra inappagabile.

 

 

Maestro è cinema che respira e che ha respirato l’aria del passato riportando in questi tempi oscuri quella luce che non sempre è visibile neppure in quel cinema hollywoodiano spesso asfittico. Ma forse la riflessione che merita di trovare attenzione è quella del suo regista e attore e non è tanto la performance attoriale notevole, divisa tra una frenesia narrativa e una impazienza di abitare il personaggio, ma soprattutto è il senso complessivo di un’opera che racconta l’uomo artista. Il senso di un cinema che sa farsi omaggio di un passato glorioso, ma che sa interpretare il presente con una propria autorialità fedele al racconto hollywoodiano, ma allo stesso tempo ricco di una propria preziosa autorialità che gli permette di restituire al suo pubblico una scena che è al tempo stesso intima e manifestamente pubblica. Intima quando le sue immagini sanno disegnare le traiettorie familiari rette da quell’amore profondo che legava il musicista alla sua compagna di sempre e pubblica nei suoi successi ed entrambi segnati da quelle chiusure negli spazi domestici e protettivi dove dare sfogo ai giochi e alle parole che descrivono i tratti dell’amore o da quell’en plain air che sembra aprirsi d’improvviso come nella straordinaria sequenza dell’esecuzione della sua opera nella chiesa che sembra innalzarsi senza più fare ritorno a terra. Maestro è un cinema davvero insolito e magnifico da vedere, un film che sembra approdare dal passato mostrando, al contempo, il presente e forse anche il futuro. Frenetico, divorante e febbrile, cinema che vive in quella luce creata dalle sue stesse immagini che continuano a mostrarsi alla mente anche a film finito a vicenda umana conclusa.