Venezia81 – Il formalismo delle relazioni in Love di Dag Johan Haugerud

La morte, il dolore, la sofferenza, spaventano. Non passano, restano. Come la solitudine subita. Schegge avvelenate che se violano la quiete dei pensieri poi contaminano tutto il corpo e inquinano i rapporti umani, il lavoro, le cose. È un film in cui si riflette sul lavoro (c’è un geologo, un’operatrice culturale, un carpentiere, uno psicologo) ma anche sulle cose. Gli arredi, le case, le tazze, la bicicletta, i vestiti. Quei baffi. Quei calzoncini corti indossati con il maglione. Quel modo di raccogliersi i capelli o quella lezione volta ad esplorare le bellezze algide di Oslo, i valori che la nutrono, le speranze che la cullano. Sono immagini che traducono un modo di stare al mondo separato da tutto il resto, connesso con altri principi. Queste atmosfere che vorrebbero trasmettere calore fanno di Love, secondo film della trilogia dedicata alla sessualità Sex, Dreams, Love realizzata dal norvegese Dag Johan Haugerud, un’opera che drammaticamente s’impegna a esplorare le conseguenze dei sentimenti alla luce di quello che i limiti rappresentano per la condizione umana. È lecito amare fino a un certo punto? Per un certo tempo? Solo certe persone? È quanto si chiede Marianne, urologa un po’ cinica ma affettuosa che mette in discussione i parametri del suo agire emotivo al cospetto di Tor, collega infermiere compassionevole, che dal canto suo le risponde che la vita è bella anche grazie agli imprevisti, a quegli incontri occasionali (o aiutati da Grindr e Tinder) che si vivono di notte, su un battello silenzioso e solitario. Un assunto semplice, costruito con grande intelligenza e coerenza che conduce i due personaggi (e quindi lo spettatore) aldilà e aldiquà di una soglia. Da guardare, considerare, superare.

 

 

Analogamente a quanto si vedeva in Sex, premiato alla 74esima Berlinale con il Label, il Cicae e il Premio Ecumenico, in questo nuovo capitolo della trilogia prevale il rigore formale, la distanza, l’equilibrio e l’abuso di parole. Non deve meravigliare quindi la scelta di togliere dal campo l’immagine del corpo: il sesso non è mai inquadrato; i baci sono intravisti, quasi nascosti, se non rubati; gli abbracci, le carezze, la carne sono assenza mai presenza. Anche la malattia, ovviamente. Ci sono le parole, però. Troppe ma sono ciò nutre i dialoghi su cui si fonda il film. Ma ci sono anche alcuni gesti importanti che raccontano di una cura da rivolgere a sé stessi e agli altri. In particolare, dentro questo impianto così razionale, ordinato, geometrico, verboso, sorprende la capacità che Haugerud mette in gioco quando, proprio a partire dalla parola, orchestra lo sviluppo dei rapporti umani: la mano di Marianne che palpa il sedere all’amico geologo, la reazione dello sconosciuto alla domanda di Marianne sul matrimonio, la delicatezza con cui Tor si prende cura del paziente appena dimesso. Haugerud quindi traduce senza tradire quella parola così ingombrante pur di fronte alle contraddizioni, soprattutto per farle emergere e guardarle meglio. Marianne sembra giustificare il suo approccio relazionale e sentimentale leggendo Hetty Hillesum, scrittrice ebrea olandese morta ad Auschwitz, citando un passo di un suo libro in cui celebra un amore grande, profondo, da diffondere e non indirizzare verso una sola persona.

 

 

Poi però al pensiero di una relazione stabile e di un matrimonio si ritrae in virtù di una libertà svincolata. Speculare e opposto il comportamento di Tor quando tutela il bisogno dell’altro facendosi carico della sofferenza altrui e mettendo sé stesso al centro di una cura che scalda, protegge, solleva dal malessere. Due forme e due idee di libertà divergenti. È un film che ambisce a descrivere più che a mostrare e quando lo fa sembra ostentare una patina che allontana, annodato dentro questa esigenza che a volte sfiora la presunzione, altre volte il qualunquismo. Per Haugerud, questo film è un’utopia: «riguarda il tentativo di raggiungere l’intimità sessuale e mentale con gli altri senza necessariamente conformarsi alle norme e alle convenzioni sociali che governano le relazioni. Credo che l’invenzione narrativa svolga un ruolo cruciale nell’immaginare mondi possibili e mentalità alternative. Permette alle persone di esprimersi e comportarsi in modi spesso insoliti. Questo serve da ispirazione per pensare in modi diversi nella vita reale. Con Kjærlighet, e l’intera trilogia, il mio obiettivo principale è stato quello di far capire che è possibile immaginare nuovi modi di pensare e comportarsi». Ecco, appunto, è un film che immagina.