Vita da asino: EO di Jerzy Skolimowski

L’imprinting è ovviamente bressoniano, EO (in Concorso a Cannes 75) nutre l’evidenza di essere un remake di Au hasard Balthazar come un motivo logico e narrativo, piuttosto che come un omaggio. Per Jerzy Skolimowski non è questione di rispetto o ispirazione, il suo film risponde a una questione più pratica che ha a che fare con le geometrie della violenza del sistema umano. Un film animalista, certo, nella misura in cui EO, l’asinello protagonista, è l’emblema di una sopraffazione adottata come sistema unico e assoluto di relazione: il suo destino nasce nella gloria di un circo, in cui si esibisce con una ragazza che lo ama profondamente, e precipita nell’inferno di una vita raminga, sempre più misera e disgraziata, spinta di mano in mano verso l’assurdità di un esistere senza ragione. La struttura è piana, senza una composizione narrativa coerente, risponde a una allitterazione tra l’essere qui ed ora della povera bestia e l’essere ovunque e sempre delle esistenze sopraffatte dalla violenza. Rispetto a Bresson, che spingeva il suo Balthazar in una prospettiva orizzontale, in cui la spiritualità della laica parabola dell’asinello sortiva un effetto di compassione per la vittima ma anche di riflessione sull’umanità disgraziata dei carnefici, Skolimowski sceglie una prospettiva verticale, in caduta libera: lascia precipitare il suo asino in un mondo follemente violento, irrazionale, astratto e senza ragioni che non siano la sopraffazione. La scelta stessa di aprire frequenti squarci di soggettività nella percezione degli animali si traduce in un dialogo con la violenza subita, piuttosto che in una visione della violenza come effetto dell’agire disumanizzato delle persone.

 

 

EO risulta dunque un film astratto e disperato, che non riesce a trovare una linea di dialogo con la moralità dello sguardo di cui vuole farsi portatore. In questo senso Skolimowski risulta anche poco empatico rispetto al suo disgraziato protagonista, tanto quanto poco lucido nella definizione della miseria umana che racconta: il camionista polacco, la deriva italiana con il giovane sacerdote che torna a casa dalla madre (interpretata da Isabelle Huppert in uno dei suoi cameos), sono passaggi che risultano astratti, incapaci di trovare una linea di riprovazione o di effettiva simpatia nello spettatore. La frenesia della messa in scena è preponderante e il frastuono non agevola l’immedesimazione, la compassione. Tutto questo trasforma il film in una sorta di pamphlet intinto in una estetica digitale un po’ grossolana, che dialoga malamente con l’esito ben più intenso e invasivo degli ultimi lavori di Skolimowslki, i fondamentali Essential Killing e 11 minuti.