Non è un vero e proprio esordio dietro la macchina da presa quello di Bruce Springsteen con Western Stars. Sempre con Thom Zimny aveva realizzato nel 2014 Hunter of Invisible Game, dall’omonima canzone contenuta nel diciottesimo album High Hopes, un cortometraggio distopico che ricorda vagamente L’uomo del giorno dopo di Kevin Costner, con tanto di omaggio un po’ ingombrante a Sentieri selvaggi di John Ford. Ci sono parecchie analogie estetiche (i ralenti insistiti) e iconografiche (cavalli ovunque) con il nuovo film, segno che a Bruce (e a Zimny) quelle cose piacciono davvero. Cambia però totalmente l’orizzonte degli eventi. Prima di tutto perché Western Stars è come un film a episodi rappresentati ognuno dalle singole canzoni dell’album omonimo, il diciannovesimo, pubblicato lo scorso giugno. In coda un inedito, la cover di Rhinestone Cowboy di Glen Campbell. A legare le performance live, fotografie e Super8 di famiglia, alcuni suoi con Patti Scialfa quando abitavano a Los Angeles negli anni che vanno dal termine del Tunnel of Love Tour (1989) a The Ghost of Tom Joad (1995). Nonostante il film sia quasi tutto girato nel fienile ottocentesco della proprietà di Springsteen nel New Jersey, a pochi minuti di macchina da dove tutto era cominciato, tra Freehold e Asbury Park, è la California il paesaggio naturale e musicale (Jimmy Webb, Roy Orbison), con una digressione «somewhere north of Nashville». I conti con se stesso dello show di Broadway si sono trasformati nella possibilità di un’isola narrativa: un disco, e adesso un film, dove raccontare le storie di personaggi che gli sono fratelli, senza essere necessariamente lui.
Uno stuntman (Drive Fast), uomini maturi che le buone intenzioni non hanno del tutto cambiato (There Goes My Miracle), altri in fuga con il cuore spezzato (Sundown), comunque pronti ad aprirsi alle conseguenze salvifiche dell’amore (Hello Sunshine, che trovo meravigliosa). In mezzo, quello che lo stesso Bruce definisce il cuore dell’album, ovvero il brano che dà il titolo a tutto, Western Stars. Se declinato al singolare parla di una vecchia star del western che ringrazia Dio di svegliarsi ancora con gli stivali ai piedi. Metafora della vita malconcia vissuta alla giornata (perché ai cadaveri glieli levano, gli stivali). Presentando le performance nel fienile, Springsteen nomina Dio quattro volte e le metafore cinque. Il primo non è un riferimento banale, del resto i concerti a Broadway finivano con il Padre Nostro, e il fienile stesso pare l’interno di una chiesa, dove magari non sono banditi i peccati, perché siamo carne e sangue. La spiritualità passa attraverso immagini poetiche, una musica più evocativa del solito (anche per l’abbondante utilizzo degli archi), a volte eterea, che solo la “sua” chitarra, dal suono così secco, riporta all’essenzialità del rock’n’roll, alla terra e alla polvere, distraendoci dal cielo. Il film rende benissimo la dualità del disco: parla di un vecchio viaggiatore che non ha mai smesso di raccontare macchine, strade, utopie come in passato (e un po’ ci ride su) ma fa i conti con gli errori e le esperienze di chi vede la fine del viaggio, forse il termine della notte. Bruce Springsteen ha 70 anni, gli uomini di Western Stars non sono quasi mai molto più giovani, ed è un caso raro nei suoi brani, che magari in terza persona hanno saputo raccontare persone di generazioni diverse. Il film restituisce l’esperienza live così come d’ora in avanti dovrebbe essere. Non più tour mastodontici stile jukebox ma una via di mezzo tra Devils & Dust e le Seeger Session del 2006 (delle quali ritorna uno dei “registi”, Charles Giordano, tastierista e soprattutto fisarmonicista dal Magic Tour cooptato dalla E Street Band). Forse è solo un auspicio, ma chissà.