Woche der Kritik 2024 – Il mondo a parte di Tedious Days and Nights di Guo Zhenming

È una Cina underground, “mai vista”, quella mostrata da Guo Zhenming nella sua opera d’esordio Tedious Days and Nights (presentata alla Woche der Kritik di Berlino in anteprima europea). Una Cina di bassifondi che il regista fa emergere da ogni inquadratura rendendo tangibile, si potrebbe dire odorabile, il degrado dell’ambiente e dei corpi, le derive dentro le quali i personaggi si sono installati in un loro modo di vivere da outsider nichilista come in un loop infinito. Guo conosce le persone filmate, in particolare tre uomini erranti da fermo, tre poeti attivisti, slabbrati, che abitano la poesia, la scrittura, la recitazione, la performance dal di dentro, lontano da qualsiasi convenzione di relazioni sociali, trascinando i corpi in squallide dimore maleodoranti e insalubri dove perpetrare – così come in altri luoghi: il salone di parrucchiere, il dancing con karaoke, i bordelli, gli edifici abbandonati di una città altrettanto abbandonata, che fu mineraria – i propri rituali: parlare, dormire, cucinare, girare nudi, compiere gesti come se fossero esseri viventi liberati da ogni adesione alle regole: urinare sul pavimento, bruciarsi i capelli e i peli del pube, masturbarsi in piedi su un letto, trasformare il pavimento in una discarica di mozziconi e scatole di sigarette, avere un rapporto morboso e maschilista con le donne, essere incuranti delle restrizioni imposte dal Covid e diffuse dagli altoparlanti…Sono uomini (e donne: la moglie di uno di loro che ha anche una figlia piccola; la parrucchiera che in un’altra città è stata una prostituta) dei quali sappiamo poco o, meglio, veniamo a conoscenza di alcuni fatti del passato in stretto legame con la società e la politica cinese degli anni Ottanta (e non solo), sopra tutti la tragedia di Tienanmen, rimasta per loro e tanti altri una ferita aperta.

 

 
Quello è il sottotesto politico del film, ma dato per cenni e quindi non semplice da decodificare nel corso delle quasi due ore di durata perché tanti aspetti non sono volutamente spiegati. Eppure, anche se non si decifrano tutte le coordinate storiche, Tedious Days and Nights ha il pregio di immergerci in quel “mondo a parte”. Nel suo essere ruvido, grezzo, è costruito sulla ripetizione e il “tedio” di giorni e notti allo sbando, senza musica (solo alla fine c’è una canzone) che non sia quella diegetica proveniente dai karaoke cantati, mutuato sulle voci e sui suoni, e su quel deambulare incessante delle persone, portando in primo piano, senza censure, i corpi dei tre protagonisti che agiscono come se la macchina da presa non esistesse e, allo stesso tempo, ben consapevoli della sua presenza. Infatti, non poche volte questi poeti degli ultra-margini si rivolgono al regista, dicono il suo nome, accennano alle scene che si girano. Ed è proprio questa complicità (che il film non ci dice da dove provenga, ancora una volta spiazzandoci e chiedendoci uno sforzo di “comprensione” o, più semplicemente, di lasciarci tras-portare all’interno di quella quotidianità che si autoalimenta) a fare di Tedious Days and Nights un’opera aperta all’immaginazione, alle scorribande, ai dettagli, all’evocazione di quel che fu ed è sparito (si pensi alle scene girate nel cinema-teatro in disuso, dove intrufolarsi sul palco o nella vecchia cabina di proiezione, “giocando” a proiettare un film, avvertendo gli spettatori di rispettare le regole, tenendo tra le mani una pellicola facendola scorrere tra le dita, cantando come se si fosse in una recita scolastica di fronte a un pubblico).

 

 
La Cina potenza globale è fuori dallo schermo. Qui si colgono i detriti di una potenza, la marginalizzazione, la poesia degli ultimi, volgare e sporca, sboccata, e rivendicata tra disillusione (Tienanmen cambiò radicalmente la vita e i progetti di uno di loro, il personaggio da cui tutto prende avvio), umorismo, riferimento, con visioni differenti, ai politici cinesi del secolo scorso e dell’attuale. Il loro è un costante corpo a corpo con se stessi, fra di loro e con chi sta loro accanto. Silenzioso, urlato, fino allo sfinimento di mente e fisico. Non si chiude niente, e non sarebbe in sintonia con lo stile adottato. L’ultima scena ci mostra due di loro in casa, entrare e uscire di campo, attendere che qualcosa venga cucinato, osservare dalla finestra. Stato di sospensione e di disagio di un film documentario-performativo che, alla sua prima mondiale al festival di Singapore, ha dovuto fare a meno della presenza del regista perché le autorità cinesi gli hanno impedito di viaggiare. Non c’è purtroppo da stupirsi.