“Beati i sottaceti / che ti preparano al cenone / Beati i critici e gli esegeti /di questa mia canzone”: così termina Le beatitudini, incisa da Rino Gaetano nel 1980 e per diversi anni rimasta inedita. Un brano dal sapore (in)consapevolmente testamentario, visto che la morte prematura del cantautore (nel 1981) non ha consentito di scoprirne le effettive intenzioni. Le beatitudini, lo svelo subito come uno spoiler – e di tv series parlerò, più avanti – è anche la schiena di La beatitudine, al singolare, lo spettacolo che Fibre Parallele ha fatto debuttare nel 2014 al Festival delle Colline Torinesi e che arriva in questi giorni a Milano (al Teatro Franco Parenti, dal 6 al 18 dicembre). Contraddittorio per vocazione, provocatore in grado di coniugare nonsense linguistici e folgorazioni profetiche sulla società italiana (“Non rimane che gente assurda / con le loro facili soluzioni / nei loro occhi c’è un cannone / e un elisir di riflessione”, Escluso il cane), Rino Gaetano sta alla scrittura scenica di Fibre Parallele come una versione in ologramma trasferita nel secolo scorso. Entrambi hanno costruito un codice espressivo forte e riconoscibile pur nella grande mutevolezza. Hanno sorpassato a destra l’accademia del proprio contesto artistico e temporale abbracciando con euforia l’idea di un’arte popolare e disturbante al contempo, irriverente e rivoltosa ma anche brillantemente acuta nello stare dentro il contemporaneo. Ed entrambi, soprattutto, lo hanno fatto calcando ogni tipo di palco con costanza e livore: Rino partendo dal Folkstudio dove, in mezzo al versare dei vari Venditti e De Gregori, risultava incongruo e troppo disimpegnato; le Fibre Parallele girando in lungo e in largo, e passando con scioltezza da piccole sale delle varie province meccaniche d’Italia al Théatre de la Ville di Parigi (con Furie de sanghe, in strettissimo dialetto barese). Dal 2006 la compagnia fondata da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo ha inanellato oltre 300 repliche, tutte rigorosamente documentate sulla pagina Facebook della compagnia, un libro aperto di sincerità abbagliante, che fa pensare più alle youTube star che alla rigidità comunicativa di molte realtà consolidate del teatro italiano. Rino Gaetano faticò molto per conquistare una forma di credibilità. Accadde che arrivò terzo a Sanremo con un pezzo che non amava (Gianna) e che diventò una specie di capestro, e il sistema musicale non gli diede comunque ciò che avrebbe meritato. Per Fibre Parallele le cose sono andate diversamente (e per fortuna). Superato uno scetticismo di natura forse anagrafica, molti analisti del settore hanno gradualmente incrementato l’attenzione sul fitto percorso del gruppo barese, diventato oggi un nome di punta in una nuova generazione di teatranti. E insieme alle molte repliche sono arrivati anche i premi, tra i quali includerei anche l’Ubu per la Celestina di Luca Ronconi, frutto della prima fuoriuscita ufficiale di Lanera dalla sua comfort zone di regista e attrice dei suoi spettacoli. Il tutto a 34 anni.
Chissà che maturi anche dalla totalizzante esperienza ronconiana la scelta di testarsi già con due nuove messe in scena da testi non originali: un adattamento dello spinoso Orgia di Pier Paolo Pasolini, presentato alle Colline Torinesi 2016, e una singolare performance dedicata al fiabesco dal surreale meta-titolo di lavorazione Licia legge le fiabe. Ma per duels torniamo a La beatitudine, spettacolo pivot nel percorso di Fibre, che gira l’Italia da due anni.
Più passano gli anni – undici, ormai – e più di Fibre Parallele mi colpisce la dimensione diretta e “intima” che avete col pubblico. Per dirla in un modo tremendo, siete una compagnia molto “social”. Un’eccezione?
Certamente noi abbiamo sempre fatto e continuiamo a fare un uso smodato dei social network. Ci piace, ci dà la possibilità di arrivare al pubblico in modo non mediato. Sicuramente è uno strumento che ci ha aiutato nel costruire un pubblico folto tra i coetanei, e persino tra i più giovani, ma la ragione principale di questa base anagrafica è comunque ciò che va in scena: lavorando su registri che vanno dal grottesco al tragico, e che pescano direttamente dal nostro sguardo sul tempo in cui viviamo, sappiamo di andare a toccare dei tasti emotivi del pubblico.
Tutto ciò in un sistema come il teatro, certamente tra i più complessi da veicolare alle nuove generazioni.
In realtà io sento che il teatro adesso sta vivendo una fase di grande potenzialità nel suo raggiungere il pubblico. E questo accade proprio a causa della vita iper-tecnologizzata e alienata che facciamo, in cui abbiamo affidato a smartphone e social network le nostre dinamiche sociali. Il teatro è un linguaggio che continua, per sua natura, a richiedere la presenza fisica delle persone, il contatto per definizione. Se già prima che esistessero questi dispositivi infernali l’assistere a un’opera teatrale era un atto che stimolava direttamente emozionale, figuriamoci adesso che il contatto personale è diventato così raro. E questo riguarda il pubblico di ogni età.
Però qui entra in gioco anche il contenuto. Che con voi è sempre fortemente personale, “a cuore aperto”.
Io vivo il teatro come un microcosmo definito da noi in scena e dal pubblico, all’interno del quale entrano tanti stimoli, tanti tic del quotidiano. Per il nostro spettacolo precedente, Lo splendore dei supplizi, che un po’ considero come la sintesi del nostro primo decennio, io e Riccardo Spagnulo ci eravamo concentrati sul dettaglio come specchio di una riflessione più ampia. La nostra creazione teatrale è spesso stata il frutto di una convergenza tra il portare in scena le proprie esistenze e il raccontare qualcosa della polis. Questo metodo, consolidatosi, è ritornato anche in La beatitudine.
La beatitudine inizia con un monologo di sincerità straziante, che gela. Dà la tara della “pancia” dello spettacolo, tra ambizioni bloccate e desideri sepolti.
A 30 anni (per La beatitudine, ne avevamo 31) inizi a renderti conto di essere in una posizione di potenziale transizione, con un piede in un’età ormai passata e uno in un’era nuova, senza essere né da una parte né dall’altra. Sei ancora figlio e vorresti essere genitore. Guardando al “macrocosmo” delle vite attorno a noi e delle nostre, abbiamo ristretto lo sguardo fino ad arrivare su un dettaglio, anzi due. Due “tipi”, entrambi segnati da un trauma: una maternità negata, in una coppia che non riesce ad avere figli, e dall’altro, una maternità ottenuta ma cronica, infinita, che è quella di una donna che ha avuto un figlio con disabilità motorie e del quale sa che dovrà occuparsi a vita.
La frustrazione sembra generata soprattutto dal sesso.
Leggevamo gli studi sulla sessualità di Michel Foucault, che già ci aveva “guidato” con Lo splendore dei supplizi (in quel caso, con Sorvegliare e punire). L’idea che risuonava era il considerare ciò che può essere normale o anormale non tanto in funzione di un fattore morale, ma soprattutto a causa di dinamiche di controllo economico e politico. Ci ha colpito, ha riagganciato il discorso col presente, un presente di cui ci interessava tradurre l’enorme difficoltà nel creare relazioni. E allora ci siamo chiesti: come mai la nostra generazione è diventata così alienata, così incapace di costruire rapporti duraturi? Perché questa precarietà scatenata da lavoro economia è diventata anche del sentimento? Così il tema del “potere” in senso ampio si è insinuato nella nostra esistenza fino a entrare nel nostro privato.
Per mettere in scena il rapporto tra sessualità e disabilità ci vuole delicatezza. Eppure nello spettacolo lo fate con una naturalezza disarmante, senza pietismo. Come ci avete lavorato?
In generale, il nostro studio su un nuovo testo è articolato e può richiedere molto tempo, per La beatitudine è stato davvero lungo. In una prima fase il tema della disabilità era solo una delle opzioni. Poi è successo che mi sono iscritta a una serie di community online, composte da persone non portatrici di disabilità che hanno il desiderio di avere rapporti sessuali ma anche sentimentali con persone con disabilità. Si chiamano devotee. Rimossa ogni forma di moralismo, ho scoperto che la vita sessuale dei disabili è un mondo nascosto ma decisamente intenso. Ho conosciuto attraverso questi siti molti ragazzi e ragazze con grande vitalità, con alcuni dei quali si sono stretti rapporti davvero stimolanti. Questa esperienza ha preso il sopravvento poi in fase di scrematura verso la scrittura scenica, nel personaggio di Danilo (interpretato da Danilo Giuva, perché i personaggi hanno i medesimi nomi degli attori), un’anima che dice: «Io ottengo ciò che voglio, non riesco a rinunciare al piacere».
Questo studio così in profondità ha fatto sì che, quando siamo andati in sala prove, la messa in scena è stata fulminea, rapida, persino inaspettata per la sua compiutezza. Anche se in generale è il nostro processo che segue questa meccanica. Certo bisogna avere attenzione e controllo, ma penso che comunque lo spettacolo lo si può fare in molti modi, ma in realtà è lui che si fa da solo.
La beatitudine è anche il vostro spettacolo dove è più nitida la scrittura degli altri personaggi.
Era uno degli obiettivi di partenza. In lavori come Mangiami l’anima e poi sputala o Lo splendore dei supplizi la scena era costruita su me e Spagnulo attori. La beatitudine, invece, arriva in un momento in cui volevamo allargare il nostro meccanismo creativo, sia sul piano drammaturgico che registico, a una scrittura che fosse in grado di contenere cinque attori. Compresa la possibilità di lavorare con un’attrice, Lucia Zotti, che ha 80 anni e più di mezzo secolo di carriera alle spalle, sfidando le sue certezze, e lei sorprendendo le nostre. Eppure non riesco a parlare di “sfida’”, perché è venuto in piedi davvero in modo naturale: in un certo senso il teatro si è fatto da parte perché avevamo dedicato così tanto tempo a “studiare” la sfida della vita, con tutte le sue ossessioni.
Perché siete così ossessionati dal concetto di “ossessione”?
Perché l’iperbole, in generale, è una figura retorica che crea assonanza col nostro gusto. L’iperbole ti porta verso il sogno, l’assurdo, l’esagerazione. Anche scenicamente: un’emorragia cerebrale diventa una fontana di sangue (in Furie de sanghe, ndr), un piatto rotto in testa diventa una strage di piatti… amo l’idea delle deflagrazioni visive.
Che poi queste “deflagrazioni”, come le chiami, sono anche il contatto più diretto con la dimensione magica del teatro, che è un altro asse di La beatitudine.
Io penso che il teatro ha il potere, attraverso il corpo e pochi elementi, di generare un altro mondo, però mentre ci sei dentro, a differenza del cinema, dove sei sempre “fuori”. Questo patto tacito che stabilisci con lo spettatore – «mi credi? Crediamoci a vicenda» – prevede che tu creda a questa iperbole. Realizzi in forma visiva le tue ossessioni o i tuoi desideri o i tuoi sogni più reconditi. Rompere un piatto in testa a una persona è un gesto che, a essere onesti, potremmo desiderare tutti nel profondo, ma che non faremo mai nella realtà. Quando noi ci rompiamo decine di piatti in testa in La beatitudine compiamo una forma di espiazione: tu guardando l’azione, espii e sublimi un desiderio. È l’idea arcaica, e sempre viva, del teatro come catarsi.
Non trovi che questa “magia arcaica” del teatro stia diradandosi? Alcune grosse produzioni recenti sembrano mutuare molti elementi dalle serie tv.
Io vado molto, moltissimo a teatro. E andandoci, noto che l’esplosione delle serie tv ha in qualche modo creato una generazione di spettacoli – alcuni molto belli – che però si avvicinano quasi pericolosamente a quel linguaggio. La velocità del racconto esplode, in un susseguirsi di effetti scenici, con la necessità costante di sorprenderti, tenerti senza fiato. A me invece del teatro piace che si crei un tempo liquido, lento, castigato. Senza che lo spettatore si ammorbi, chiaramente, ma questa “costrizione” – il telefono spento, il silenzio, persino la compostezza dell’essere seduti – è un esercizio di educazione che non siamo più abituati a fare che a me affascina e mi piace ritrovare nell’atto dell’assistere a una rappresentazione. La magia del teatro del creare qualcosa che non è tangibile non la ritrovi in nessun altro linguaggio artistico. È la parte più arcaica del teatro che mi affascina. Il contemporaneo mi piace ritrovarlo nei temi, nella lingua… ma il linguaggio teatrale mi piace che sia tale, “magico”.
Infine, Rino Gaetano. Vi avvicinerei a lui, per contenuti ma anche per l’impatto “urtante” sul contesto artistico in cui operava/operate. Ti secca?
Tutt’altro. La canzone di Rino, Le beatitudini, continuava a ronzarmi in testa da tanto, fin da Lo splendore dei supplizi. Ha un senso del paradosso, dell’ossimoro, che è molto vicino al nostro. Ma la canzone è venuta dopo la scrittura scenica e dopo aver già scelto il titolo, diciamo che ha lavorato tanto sull’inconscio. In generale i cantautori italiani sono miei riferimenti. Alcuni sono entrati direttamente negli spettacoli (Fossati, Ferro, Iosonouncane). Altri in modo più sotterraneo hanno segnato il mio percorso e continuano a farlo. Rino Gaetano era molto ironico e feroce nel suo scrivere canzoni. Poi lui era anche un demonio inquieto, e questo ai miei occhi lo rende ancora più accattivante. E vicino.