Su RaiPlay Dopo L’amore di Joachim Lafosse – Millesimali del tenersi insieme

Il perimetro dell’amore è tracciato da Joachim Lafosse come la geometria di un edificio chiuso in se stesso, senza vie d’uscita emotive o anche solo simboliche. Ecco la fine di un amore abitato da una coppia per quindici anni, due figlie gemelle a marcare la specularità ormai dispersa della relazione di un uomo e una donna, che il film ci mostra già al capolinea, separati in casa come da prassi consolidata. L’economia di coppia, come dice il titolo originale, è tutta un tracciato di paletti e limiti reciproci, spazi e tempi da abitare in una rappresentazione della vita coniugale che Lafosse edifica esattamente come fosse il palcoscenico di una pièce: orari e giorni di presenza, spazi in cui muoversi, cosa toccare e cosa no, cosa fare come agire e come no, tutto come fosse la ritmica di una messa in scena, regia occulta dei sentimenti da agire e mostrare alla coppia delle figlie, Jade e Margaux. Le due gemelle sono evidentemente la raffigurazione scenica dell’unità ormai dispersa dei genitori e a loro sarà infatti demandata la soluzione finale del dramma… Dopo l’amore è (quasi)  interamente chiuso tra le pareti domestiche di quella casa che da 15 anni tiene insieme Marie e Boris e che ne trattiene la separazione definitiva: si discute di percentuale di proprietà da spartire tra moglie e marito, la casa è della madre di lei, ma lui ci ha messo il lavoro di ristrutturazione. Bisogna decidere ma lei non molla e lui nemmeno, forza delle planimetrie e dei millesimali del tenersi insieme… Le gemelle intanto giocano, cercano la complicità del padre allontanato ma non cacciato, il barlume di una serenità che è stata e che si riaccende per una sera soltanto attorno al desco imbandito e a un disco che gira dopocena: forse la scena più bella del film, insieme a quella, perfettamente speculare, in cui Boris torna a casa e trova a tavola Marie e i loro amici (un tempo, forse ancora…) comuni.

Lafosse costruisce l’economia della coppia attorno alla specularità infranta della condivisione, il doppio amore di uno stare insieme che è magnetismo a poli uguali: respingente. E allora il processo della messa in scena è incarnato da Lafosse sulla casa, sulla sua nuda proprietà (dieci anni sono passati dal quel suo film, Proprietà privata, in realtà ancora molto vicino a questo), come fosse una trappola da cui progressivamente liberare i protagonisti: ambiente unico in cui tutto ruota e solo pian piano, scena dopo scena, i personaggi escono: prima il giardino poi il mondo esterno… L’economia è un fattore di equilibrio, la scansione di una misurazione del r/esistere insieme di due persone in cerca di vie d’uscita che in realtà hanno la serratura dal lato esterno. La similarità delle figlie gemelle si farà carico del disequilibrio necessario e risolverà il dramma, fatalmente, nello spazio imparziale del dolore (l’ospedale) e della giustizia (il giudice). In mezzo Lafosse costruisce un film che ha una rigidità netta, forte di una intelligenza che è più drammaturgica che filmica: il suo è cinema in cui le emozioni sono atti scenici (elettricità drammatica)  prima ancora che vissuti filmici consegnati allo spettatore: vedi il suo film e pensi fatalmente a cosa avrebbe fatto di questi personaggi, delle loro storie, in un’altra epoca, uno come Philippe Garrel… Con Joachim Lafosse resti invece sempre frontale dinnanzi alle torsioni dei personaggi, più per scelta registica che per difetto del film, sia chiaro. C’è poi Bérénice Bejo che è sempre energia trattenuta, perfetto equilibrio di sentimenti, di fronte alla quale Cédric Kahn appare poco permeabile: lo preferiamo di sicuro in veste di regista.