Alien: Covenant – Operazione senza prospettive

Dopo Prometheus Ridley Scott vive di rendita e cerca di farla fruttare con facilità nel secondo prequel di Alien, Alien: Covenant. Qui, come già accennato in Prometheus, sembrano convergere spunti indimenticati di Blade Runner, piuttosto che del film capostipite dell’intera saga, come a voler fare un passo in un’altra direzione, inserendo nella relazione tra umano e alieno un terzo attore, l’automa, certamente meno raffinato dei replicanti, ma ugualmente desideroso di trasformare il suo destino. E non a caso il film si apre proprio con l’immagine in primissimo piano di un occhio azzurro che osserva, mentre qualcuno fuori campo pone domande. Il contesto però è cambiato. Il 2104 (dove Alien: Covenant è ambientato) non ci appare come la Los Angeles del 2019. Non ci sono esplosioni né minacce, ma una casa completamente bianca affacciata su un mondo fin troppo idilliaco e pacifico.  È l’occhio dell’automa David, ultima creazione dell’Ingegnere Weyland, che, a sua volta, pone domande esistenziali al suo padre-scienziato. L’incipit, dunque, anticipa chiaramente gli argomenti centrali del film, l’ossessione della creazione (uomo o automa che sia) e di conseguenza anche della sua distruzione.

Nell’astronave Covenant viaggiano migliaia di embrioni e di uomini ibernati viaggiano alla volta di un pianeta da colonizzare. Ma una tempesta di neutrini costringe il sistema e il sintetico Walter a svegliare i membri dell’equipaggio per riparare il danno e permettere alla missione di proseguire. Sistemata l’avaria, però, l’ambizione umana fa loro compiere il primo errore: dirottare il percorso e fermarsi in un più vicino pianeta, da dove proviene un misterioso messaggio. Da questo momento è un precipitare continuo e prevedibile (oltre che semplicistico) perché quello è il pianeta che ha letteralmente divorato l’equipaggio della Prometheus, appunto, senza che si potesse rispondere agli interrogativi filosofici sulla vita di cui quel film era pregno. Di quell’epica qui non resta quasi nulla, se non un puro esercizio perfettamente costruito. Sono tutti morti e tutti dovranno morire. L’infezione dovrà espandersi come punizione pensata da David nei confronti del genere umano superbo e miope, che l’ha creato già orfano con l’intenzione di servirsene. Siamo di nuovo nei territori speculativi di Blade Runner e della lotta tra umani e androidi, ma qui il campo esistenziale ha un altro respiro e appare piuttosto come il tentativo di dare una parvenza filosofica ad un film che, invece, mantiene nella sua anima una tensione horror, proprio come Alien del 1979, senza, però, mai andare fino in fondo, senza giocare sull’idea di minaccia e di paura, invece profondamente e teoricamente necessarie. Sarà per mancanza di personaggi veri e propri (presenze trasparenti che si dimenticano appena divorati dal vorace alieno, che hanno contribuito a far nascere), sarà per un’impostazione narrativa sovrabbondante, che deve spiegare più di quanto non sia necessario, Alien: Covenant manca completamente di autonomia e carisma, somiglia sempre più ad uno strumento di congiunzione tra un punto di partenza e uno di arrivo, come se Scott avesse ben presente l’obiettivo da raggiungere e per arrivarci avesse accettato di sacrificare i passaggi intermedi.